Pane e pomodoro ai tempi del miracolo economico italiano
Fiat 600. L’Italia si muove verso il benessere.
Straordinarie trasformazioni dello stile di vita, del linguaggio e dei costumi degli italiani, accompagnati da un deciso aumento del tenore di vita delle famiglie, avrebbero rappresentato quella irripetibile accelerazione della crescita economica soprannominata “il miracolo economico italiano”.
Chi è nato negli anni ’50 solo dopo qualche decennio, tra le aule di magisteri di Economia o Sociologia per esempio, avrebbe compreso che quel tumultuoso affastellarsi di Lambrette e di Vespe, di 500 e di 600 rombanti in quarta sulla doppie corsie della nascente Autostrada del Sole (ma la ruspante borghesia viaggiava già tra le bombate lamiere della Fiat 1100 e il lusso vellutato delle Lancia Flavia) , di elettrodomestici destinati nella loro bianca purezza ad alleviare (moltiplicandole) le fatiche di casalinghe appagate (che da allora in poi avrebbero fatti i “mestieri” coi capelli laccati e i tacchi a spillo sotto vaporose gonne svolazzanti) ; quel moltiplicarsi, dicevamo, di luoghi magici che spalancavano atri luccicanti di promesse consumistiche come le caverne di Alibabà ma dai nomi improbabili di Standa e Upim , quelle irresistibili sirene televisive che “dopo Carosello tutti a nanna” (e quei televisori che s’infilavano con sfavillanti baluginii catodici in tutte le case insegnando l’italiano agli italiani e a pronunciare correttamente impronunciabili nomi di merci straniere straripanti dagli scaffali: Kraft, Star, Durban’s, Dixan); tutte queste straordinarie trasformazioni dello stile di vita, del linguaggio e dei costumi degli italiani, accompagnati da un deciso aumento del tenore di vita delle famiglie, avrebbero rappresentato quella irripetibile accelerazione della crescita economica soprannominata “il miracolo economico italiano”, o più semplicemente “boom”.
L’Italietta rurale diveniva, poco a poco e a sua insaputa, quell’Italia adulta che si sarebbe seduta con orgoglio alla tavola dei consessi internazionali; nientemeno che una delle principali potenze industriali dell’Occidente (ma mantenendo l’intreccio ibrido fra la persistenza di consuetudini arcaiche e l’irruzione di mode e usanze orecchiate dall’estero).
E mentre il Paese viaggiava spedito verso il progresso e l’industrializzazione e la tecnologia, mentre quella parte di Paese che parlava ancora siciliano, calabrese, napoletano, abruzzese lasciata indietro viaggiava a sua volta, con minor speditezza ma altrettanta feroce determinazione ad accumulare pezzetti di benessere per i propri figli (che nel frattempo imparato l’inglese e il francese e il tedesco, con un titolo di studio e il palmare nello zaino continuano a cercare altrove il benessere negato in Patria) ; mentre tutto questo avveniva, noi figli del ’50 guardavamo invidiosi i compagni di gioco che addentavano le prime merende industriali.
Mentre l’Italia cambiava perdevamo pezzi della nostra infanzia.
Perdevamo la semplicità disarmante di pane e zucchero, la sontuosa untuosità di pane e pomodoro e olio e un pizzico di sale e un sentore di origano, il lusso raro di un panino bianco fragrante di forno imbottito di una fetta (una) di mortadella. Sbavavamo per il miraggio bicolore della Cremalba, per la dolcezza del Golosino base di wafer e una nuvola di panna racchiusa in un guscio sottile di cioccolato, per quel miscuglio gianduioso e stupefacente (nel senso della dipendenza) di cacao e nocciole che è la Nutella (ma”vogliamo stare tutta la vita a rimpiangere la Nutella?“).
E quanto orgoglio nelle voci acute delle mamme che dalle finestre sui cortili strillavano ai loro pargoli “la merenda!” mentre spalmavano felici conservanti ed edulcoranti e coloranti e oli di palma e aromi naturali e grassi saturi (ma anche insaturi, chissenefrega) su fette di pane che avevano visto più appetitosi companatici.
E che fatica per noi genitori e nonni, divenuti adulti votati a una nutrizione sana e consapevole, recuperare figli e nipoti alla santità delle nostre merende antiche.