Quando cucina “Eros”…

“Dolce come il cioccolato”, di Laura Esquivel è un romanzo di magia, amore, sesso, drammi e tanta buona roba da mangiare.

Il romanzo è diviso in dodici sezioni intitolate, ciascuno, ad un mese dell’anno. Ogni sezione inizia con una ricetta messicana.

La protagonista, Tita, “nata prematura sopra il tavolo della cucina attirata dagli odori del cibo e piangendo per la presenza della cipolla”, si innamora già adolescente di Pedro, ma non può sposarlo perché, essendo figlia minore, dovrà accudire la dispotica madre nella vecchiaia, seguendo un’antica tradizione messicana.

Pedro sposa la sorella per restare vicino a Tita. Tra i due cognati, perdutamente innamorati e irresistibilmente attratti, nasce una situazione incandescente fino al dramma finale.

Tita sfoga la sua passione nella preparazione del cibo che diffonde, tra quanti se ne nutrono, i sentimenti estremi che la agitano.

La ricetta che proponiamo, tratta dal libro, è quaglie in salsa di petali di rosa” (clicca qui)

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Stoccafisso o baccalà?

Finché è vivo e guizzante si chiama ancora gadus morhua, pesce della famiglia dei Gadidi, ordine dei Teleostei, sottordine degli Anacantini. Insomma, merluzzo.

Dopo essere stato pescato, decapitato ed eviscerato il suo destino s’imbatte in un bivio: essiccato all’aria fredda e asciutta dei paesi del nord diviene pescestocco o stoccafisso, acconciato sotto sale e imbarilato diviene baccalà.

Ma qualunque cosa sia diventato il fu gadus morhua  ritrova presto la sua vera, unica e nobile ragion d’essere: la cucina.

Ma qual’è l’origine dei termini “stoccafisso” e “baccalà”?

Stoccafisso o pescestocco deriva dalla congiunzione dei termini stock (comune all’inglese, al tedesco e all’olandese, stokk in norvegese), che in buona sostanza vuol dire “bastone”, ma che (almeno in inglese) fa anche riferimento all’azione dell’immagazzinare (“stoccare” la merce, si dice anche in italiano) e fish (comune all’inglese e al tedesco, vish in olandese) che vuol dire semplicemente “pesce”. Dunque pesce duro come un bastone, ovvero pesce da “stoccare” su appositi bastoni all’aria asciutta del nord o da immagazzinare, specie per provvedere all’approvvigionamento delle navi.

Per quanto riguarda il “baccalà”, preferiamo pensare che il nome derivi semplicemente dal termine portoghese bacalhao (bacalao secondo i baschi, bacallao per il resto degli spagnoli) e questo non per provata cognizione scientifica, ma in omaggio ai baschi e ai portoghesi che ne furono gli inventori. Il termine si rifarebbe a sua volta al latino bacculus, cioè bastone.

Curioso è l’antico termine tedesco bakkel-jau che vuol dire bastone-pesce ed è il nome dato in alcune parti della Germania, ma anche in Scandinavia, allo stoccafisso. Il che probabilmente spiega perché i vicentini (che da quelle terre importarono il pesce) si ostinano a chiamare “baccalà” quello che il resto d’Italia chiama “stoccafisso”, con qualche incomprensione culinaria. Ma più comunemente in Germania il nome dato a questo pesce è kabel-jau. In olandese il termine diventa kabel-jauw (che qualcuno sospetta sia una semplice trasposizione di bakel-jau) e vuol dire “pesce-gomena”, insomma ancora una volta pesce duro come un canapo.

Nel sud Italia spesso viene semplicemente chiamato “stocco” (stoccu). Nel vicentino, a sorpresa, lo stoccafisso viene invece chiamato “baccalà.

Le notizie fin qui riportate sono tratte da “Stoccafisso & Baccalà nella Tradizione gastronomica italiana” firmato da Il Cuoco Letterato (Yorick Editore).

Il libro tratta del merluzzo e della sue due anime gastronomiche di stoccafisso  e di baccalà. Tra storia, miti e leggende narra anche del fecondo incontro tra questo prezioso alimento e la straordinaria creatività della cucina italiana.

Il libro contiene anche 90 ricette regionali. Ve ne proponiamo due:

baccalà marinato alla griglia con ceci (vai alla ricetta)

stocco alla “mammolese” (vai alla ricetta)

per tutte le ricette clicca sulla copertina e scarica l’e-book

 

Stupisci i tuoi ospiti con una cena del ‘400

Le ricette che vi proponiamo sono di Maestro Martino da Como, cuoco del ‘400. La cena prevede un antipasto di “frittelle ripiene di vento” , una “carbonata di pancetta” e, per finire, un dessert a base di mele, “frittelle di poma“.

Benchè di semplicissima preparazione le ricette garantiscono un sicuro successo con i vostri ospiti più esigenti, promuovendo la vostra cucina come raffinata e “colta” (ma preparatevi bene sulla storia dello chef).

Martino de’ Rossi o Martino de Rubeis, detto Maestro Martino nacque attorno al 1430 nel Ducato di Milano (non si conosce la data esatta della morte, presumibilmente avvenuta nell’ultimo ventennio del secolo).

Da Milano (dove è al servizio degli Sforza) si sposta a Roma. E’ nelle cucine vaticane che si consacra il suo successo e la sua fama di cuoco di straordinario talento, capace soprattutto di inventare nuove ricette più che ricopiare quelle tradizionali dell’epoca.

Dalla seconda metà degli anni ’50, fino al 1465, è cuoco personale del Cardinale Camerlengo Ludovico Scarampi Mezzarota, Patriarca di Aquileia, noto per l’opulenza dei suoi banchetti al punto da essere soprannominato “cardinal Lucullo”.

Pare che il Cardinale Scarampi Mezzaroa avesse stanziato la considerevole somma di 20 ducati  al giorno da spendere per il cibo. E’ grazie a questa generosa disponibilità che Martino ha potuto elaborare un’abbondante produzione culinaria e cominciare a stendere i primi manoscritti del suo Libro de Arte Coquinaria, che diverrà presto un importante punto di riferimento per i cuochi contemporanei.

Il ricettario Libro de Arte Coquinaria, composto di 65 fogli non numerati scritti in lingua volgare, per la capacità inventiva e modernizzatrice di Maestro Martino diventò ben presto il testo di riferimento per tutti i cuochi a lui contemporanei – che già erano suoi ammiratori – e quelli successivi, assurgendo al ruolo di libro mastro per tutta la nuova cucina del Rinascimento.

Uno dei principali elementi distintivi dei suoi piatti, è il recupero del gusto originale delle materie prime, evitando l’abuso di spezie, com’era d’abitudine nella tradizione medioevale quando le spezie, e la loro abbondanza, simboleggiavano la ricchezza del padrone di casa.

A Maestro Martino si deve la prima menzione della parola polpetta, assente nei ricettari fino al XIV secolo, anche se – leggendone la preparazione – pare alluda non già alla polpetta vera e propria bensì ad una specie di  involtino allo spiedo. Inoltre è il primo cuoco che scrive la ricetta della finanziera piemontese ed è il primo a descrivere una preparazione che possiamo considerare come la progenitrice dell’attuale mostarda vicentina.

A Maestro Martino si ascrive anche il merito d’essere stato il primo ad aver trattato, in maniera approfondita, della pasta, in particolare dei vermicelli. Lo aveva già fatto in uno scritto precedente (De arte Coquinaria per vermicelli e maccaroni siciliani, probabilmente del 1450), che riprende nel Libro de Arte Coquinaria, esaltando, tra l’altro, i vantaggi della pasta essiccata che, in questo modo, si può conservare «doi o tre anni».

Nel 2012 è stata fondata l’Associazione Maestro Martino, presieduta dallo Chef Carlo Cracco, che ha lo scopo di valorizzare la figura storica di questo grande cuoco lombardo del Rinascimento.

Frittelle “piene di vento”

frittelle vuote

Togli del fiore di farina et d’acqua di sale e del zuccaro; distempererai questa farina facendone una pasta che non sia troppo dura, et falla sottile a modo di far lasagne; et distesa la dita pasta sopra ad una tavola, con una forma di legno tonda ovvero con un bicchiero la tagliarai frigendola in bono olio. Et guarda non ti vinisse bucata in niun loco, et a questo modo si gonfiaranno le frittelle, che pareranno piene, et saranno vote.

La “carbonata” di pancetta

pancetta alla brace

Ingredienti: 8 fettine di pancetta salata spesse circa ½ cm, zucchero, cannella, prezzemolo
succo d’arancio amaro (o, in alternativa, 1 arancia + un limone).

Preparazione: Disponete le fettine di pancetta sulla brace o su una bistecchiera ben calda e fatela rosolare bene da entrambe le parti. Servite queste squisite fettine a tavola molto calde e cosparse di zucchero, cannella e succo di arance.

Frittelle di poma

Frittelle-di-mele-ricetta-della-nonna

Monda et netta le poma molto bene, et falle cocere allesso o sotto la brascia, et cavatone fora quello duro di mezzo pistarale molto bene et insieme gli mettirai un poco de lievito et un poco di fiore di farina, et del zuccaro; et fa’ le frittelle frigendole in bono olio.

 

Quando l’anatra finisce a tavola!

“Andate affanculo, schiavisti! Sono settant’anni che faccio lo sfigato!” Così grida Anatrino (alias Paperino) prima di spennare vivo l’odiatissino Zio Anatrone (alias Zio Paperone).

Parliamo di un libro, naturalmente. Ma andiamo con ordine. “Anatra all’arancia meccanica” del collettivo Wu Ming (Einaudi Editore) è una manciata di racconti infilzati come le anatre della Tasmania di Flynn (che è un personaggio del racconto “In like Flinn”) a formare una collana surreale e irriverente, grondante di caustica ironia e a tratti di grassa comicità.

I cinque di Wu Ming, maneggiando con disinvoltura un gergo greve insieme a immagini splatter di sconcertante brutalità, dimostrano, come già Henry Miller nel capolavoro pornografico “Opus pistorum”, che è possibile fare letteratura “alta” utilizzando gli scarti della cucina letteraria.

La raccolta trae il titolo dal racconto lungo “Canard à l’orange mécanique”, esilarante e ultraviolenta dissacrazione del mondo zuccheroso di Disney dove finalmente l’odiosissimo Zio Anatrone, alias Zio Paperone, è spennato vivo da un incazzatissimo Anatrino, alter ego di Paperino, che al grido di “andate affanculo, schiavisti! Sono settant’anni che faccio lo sfigato!” manifesta la propria raggiunta autoconsapevolezza, in un’orgia di violenza urbana.

La ricetta consigliata con il libro è l’anatra all’arancia (se volete sembrare sofisticati ditelo alla francese  “canard all’orange“, anche se la ricetta originale è toscana!) (clicca qui per la ricetta).

Un buon caffè, da gustare con lentezza, contro lo stress della vita moderna

Un buon caffè, l’aroma che sale lieve alla narici, il ritmo lento di un’antica ricetta contro lo stress della vita moderna.

Siamo costantemente borbardati dall’annunciazione di catastrofi imminenti. Le emergenze ci incalzano togliendo sapore alla vita. C’è l’emergenza ambientale con i mari inquinati e i pesci imbottiti di mercurio e plastica; l’emergenza economica con la recessione diero l’angolo e il lavoro che non si trova; l’emergenza immigrazione con gli stranieri che ci tolgono il lavoro e stuprano le nostre donne; l’emergenza femminicida con le nostre donne massacrate da italianissimi uomini. Basta! Prendiamoci una pausa, magari con un buon caffè napoletano preparato con lenta consapevolezza secondo il rito descritto da Pasquale Lojacono al dirimpettaio prof. Santanna.

Parliamo di “Questi fantasmi! “, scritta da Eduardo De Filippo nel 1945 ed interpretata dallo stesso commediografo il 7 gennaio 1946, al Teatro Eliseo di Roma, con la Compagnia «Il Teatro di Eduardo con Titina De Filippo».

Il 7 giugno 1955 la commedia fu rappresentata a Parigi, al Théâtre de la Ville – Sarah Bernhardt, in occasione del “Festival internazionale d’arte drammatica” (Questi fantasmi! è stata la prima  commedia di Eduardo rappresentata all’estero).

La trama è semplice: Pasquale Lojacono è tormentato dalle infedeltà della moglie, ma è propenso a credere, assai pirandellianamente, che siano i fantasmi a portargli in casa i denari che lascia il ricco amante dell’allegra consorte.

Vediamo la scena madre: Pasquale, seduto fuori al balcone, ha disposto, davanti a sé, un’altra sedia con sopra una piccola macchinetta da caffè napoletana (la “cuccumella”) una tazzina e un piattino. Mentre attende che il caffè sia pronto parla con il dirimpettaio prof. Santanna.

“A noialtri napoletani, toglierci questo poco di sfogo fuori al balcone… Io, per esempio, a tutto rinuncerei tranne a questa tazzina di caffè, presa tranquillamente qua, fuori al balcone, dopo quell’oretta di sonno che uno si è fatta dopo mangiato. E me la devo fare io stesso, con le mie mani. Questa è una macchinetta per quattro tazze, ma se ne possono ricavare pure sei, e se le tazze sono piccole pure otto per gli amici… il caffè costa cosi’ caro… (Ascolta, poi) Mia moglie non mi onora, queste cose non le capisce. E’ molto più giovane di me, sapete, e la nuova generazione ha perduto queste abitudini che, secondo me, sotto un certo punto di vista sono la poesia della vita; perché, oltre a farvi occupare il tempo, vi danno pure una certa serenità di spirito. Neh, scusate chi mai potrebbe prepararmi un caffè come me lo preparo io, con lo stesso zelo… con la stessa cura. Capirete che, dovendo servire me stesso, seguo le vere esperienze e non trascuro niente… Sul becco… lo vedete il becco? (Prende la macchinetta in mano e indica il becco della caffettiera) Qua, professore, dove guardate? Questo… (Ascolta) Vi piace sempre di scherzare…. No, no… scherzate pure… Sul becco io ci metto questo coppitello di carta… (lo mostra) Pare niente, questo coppitello ci ha la sua funzione… E già perchè il fumo denso del primo caffè che scorre, che poi e il più carico, non si disperde. Come pure, professò, prima di colare l’acqua, che bisogna farla bollire per tre o quattro minuti, per lo meno, prima di dicevo, nella parte interna della capsula bucherellata, bisogna cospargervi mezzo cucchiaino di polvere appena macinata – piccolo segreto! In modo che, nel momento della colata qua, in pieno bollore, già si aromatizza per conto suo.”

Insomma con la “cuccumella” si ottiene, seguendo un rito casalingo che non ammette fretta, un caffè di consistenza leggera e di gusto pieno che fa bene al cuore.

Per la ricetta del caffè “alla napoletana” clicca qui

Il “cornuto contento” e il caffè di Eduardo. Ovvero un’odierna metafora elettorale.

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Eduardo De Filippo in “Questi fantasmi!”

Pare che malgrado le stravaganti affermazioni di quel personaggio da commedia all’italiana che è il  Ministro dei trasporti e le imbarazzanti performance della Sottosegretaria all’economia dell’attuale governo; malgrado le minacce un tantino volgari rivolte da quell’altro leader grillino dalla lontana America latina ai giornalisti nostrani (assai poco eufemisticamente definiti “puttane”); malgrado le improvvide dichiarazioni di quel Vice ministro passato, per vischiosità familistiche, dal cadenzato bellico onestà onestà al desolante “tengo famiglia”; malgrado tutto ciò, dicevo,  il consenso tributato all’attuale Governo dagli elettori del Movimento 5 Stelle anziché diminuire, inaspettatamente regge, se non aumenta addirittura. Insomma i “grillini” sembrano “contenti” dei loro rappresentanti politici.

Questa sconsolata osservazione mi fornisce valido pretesto per parlarvi di quell’altro “cornuto contento” che è Pasquale Lojacono, protagonista di una bella commedia di Eduardo.

Parliamo di “Questi fantasmi! “, scritta da Eduardo De Filippo nel 1945 ed interpretata dallo stesso commediografo il 7 gennaio 1946, al Teatro Eliseo di Roma, con la Compagnia «Il Teatro di Eduardo con Titina De Filippo».

Il 7 giugno 1955 la commedia fu rappresentata a Parigi, al Théâtre de la Ville – Sarah Bernhardt, in occasione del “Festival internazionale d’arte drammatica” (Questi fantasmi! è stata la prima  commedia di Eduardo rappresentata all’estero).

La trama è semplice: Pasquale Lojacono è tormentato dalle infedeltà della moglie, ma è propenso a credere, assai pirandellianamente, che siano i fantasmi a portargli in casa i denari che lascia il ricco amante dell’allegra consorte.

Vediamo la scena madre: Pasquale, seduto fuori al balcone, ha disposto, davanti a sé, un’altra sedia con sopra una piccola macchinetta da caffè napoletana (la “cuccumella”) una tazzina e un piattino. Mentre attende che il caffè sia pronto parla con il dirimpettaio prof. Santanna.

“A noialtri napoletani, toglierci questo poco di sfogo fuori al balcone… Io, per esempio, a tutto rinuncerei tranne a questa tazzina di caffè, presa tranquillamente qua, fuori al balcone, dopo quell’oretta di sonno che uno si è fatta dopo mangiato. E me la devo fare io stesso, con le mie mani. Questa è una macchinetta per quattro tazze, ma se ne possono ricavare pure sei, e se le tazze sono piccole pure otto per gli amici… il caffè costa cosi’ caro… (Ascolta, poi) Mia moglie non mi onora, queste cose non le capisce. E’ molto più giovane di me, sapete, e la nuova generazione ha perduto queste abitudini che, secondo me, sotto un certo punto di vista sono la poesia della vita; perché, oltre a farvi occupare il tempo, vi danno pure una certa serenità di spirito. Neh, scusate chi mai potrebbe prepararmi un caffè come me lo preparo io, con lo stesso zelo… con la stessa cura. Capirete che, dovendo servire me stesso, seguo le vere esperienze e non trascuro niente… Sul becco… lo vedete il becco? (Prende la macchinetta in mano e indica il becco della caffettiera) Qua, professore, dove guardate? Questo… (Ascolta) Vi piace sempre di scherzare…. No, no… scherzate pure… Sul becco io ci metto questo coppitello di carta… (lo mostra) Pare niente, questo coppitello ci ha la sua funzione… E già perchè il fumo denso del primo caffè che scorre, che poi e il più carico, non si disperde. Come pure, professò, prima di colare l’acqua, che bisogna farla bollire per tre o quattro minuti, per lo meno, prima di dicevo, nella parte interna della capsula bucherellata, bisogna cospargervi mezzo cucchiaino di polvere appena macinata – piccolo segreto! In modo che, nel momento della colata qua, in pieno bollore, già si aromatizza per conto suo.”

Insomma con la “cuccumella” si ottiene, seguendo un rito casalingo che non ammette fretta, un caffè di consistenza leggera e di gusto pieno. Quello che manca alla politica di oggi (non la cuccumella, intendo, ma la leggerezza e il gusto di far bene le cose).

Per la ricetta del caffè “alla napoletana” clicca qui

Voglia di purezza: il biancomangiare

biancomangiare

Per “biancomangiare” oggi si intende comunemente un piatto dolce e delicato tipico di tre regioni italiane: la Valle d’Aosta, la Sardegna e la Sicilia. In Val d’Aosta si chiama “blanc manger” (denuncia la derivazione francese) e se ne conoscono due versioni, una con latte di mandorle e l’altra con latte di mucca. In Sardegna il dolce è chiamato “menjar blanc”, a base di crema di latte addensata con amido e scorza di limone (ma pare che la derivazione sia catalana). In Sicilia, infine, il biancomangiare è una crema preparata con mandorle tritate, zucchero, amido, buccia di limone, cannella, messa a raffreddare in forme di terracotta. Giunto nell’isola forse nell’XI secolo, il dolce (di probabile derivazione araba) era  tipico della contea di Modica nel ragusano.

 Nel medioevo il biancomangiare non era necessariamente un dolce, ma una preparazione basata sulle presunte qualità del colore bianco, simbolo religioso di purezza. Destinate alle classi superiori, le varie ricette prendevano il nome dal colore degli ingredienti che prevalevano nella sua elaborazione, come petto di pollo, latte, mandorle, riso, zucchero, lardo, zenzero bianco. Nel Liber de coquina (XIV sec.), primo ricettario in volgare, il biancomangiare risulta confezionato con petti di pollo, farina di riso stemperata in latte di capra o di mandorle, il tutto messo a bollire a fuoco lento con zucchero in polvere e lardo bianco sciolto, fino a raggiungere una certa densità (per la Quaresima si escludeva il lardo).

Cibo e Libri sono come il formaggio con le pere. Insieme è meglio

 Red wine and a book on burning fireplace background

L’accostamento tra cibo e letteratura è presente sin dai tempi più remoti. Nell’Antico e nel Nuovo Testamento la parola di Dio è il pane degli uomini. Parola e cibo, dunque: il cibo, nutrimento del corpo, diviene metafora vigorosa di Sapere e Verità quale nutrimento dell’anima.

Per i latini il termine sapientia deriva dal verbo sapio, che indica aver sapore ma anche esser saggio, avere senno. I latini, cioè, estendevano il termine sapor, che significa sapore, gusto, alla parola per qualificare la parola stessa, per esempio per sottolineare l’eloquenza di un discorso.

Sempre i latini offrono materiale etimologico per definire alcuni generi letterari, come per esempio la “satira”, dal latino satŭra, che deriverebbe da un particolare elaborazione culinaria, la “lanx satura”, un piatto di primizie offerte agli dei o anche pietanza composta da ingredienti misti.

E poiché parliamo di latino, è significativa la vicinanza al mondo gastronomico del latino cosiddetto “maccheronico”, quest’ultimo termine provenendo, con buona evidenza, dal “maccherone”  (che nel Medioevo indicava gli gnocchi, un impasto grossolano e popolare) o anche dal “macco”, sorta di polenta di fave spezzate in uso presso i contadini. Entrambi essendo cibi poveri, fatti con materie prime non nobili, atti a indicare un linguaggio incolto, una prosa altrettanto grossolana e adatta al gusto e alla comprensione popolana.

Attività letteraria e gastronomia si accompagnano nel corso di tutta la storia della letteratura. Emblematico è il caso di Dante che nel suo Convivio paragona le quattordici canzoni ad altrettante vivande e dove i commenti al testo sono paragonati al pane “sanza lo quale da loro non potrebbe esser mangiata[1].

Ugualmente interessante appare il connubio tra gastronomia e teatro, parente stretto della letteratura, essendo il teatro non altro che la drammatizzazione scenica di un testo scritto (benché il testo non sia sempre indispensabile, nel qual caso la parentela è disconosciuta).

Sull’argomento si ricorda il cosiddetto servizio “alla francese” che, con la sua struttura prandiale di derivazione italiana rinascimen­tale e barocca, dominò la gastronomia sino all’Ottocento (ovvero sino al dilagare della moda del servizio detto “alla russa”, in uso ancora oggi) [2].

L’imbandigione e l’organizzazione del banchetto, in tale visione, era caratterizzata da un elaborato apparato scenico dominato da logiche e finalità prevalentemente simboliche, teatrali: il banchetto era cioè rappresentazione non tanto del cibo quanto di una filosofia di vita legata al piacere dello stare a tavola. In proposito Brillat Savarin, nella sua Fisiologia del gusto distingue tra il piacere del mangiare e il piacere della tavola [3].

In tale contesto l’arte pasticcera divenne, per restarvi anche nella contemporaneità, la più alta espressione dell’ideale decorativo. E ciò in quanto i dolci, a ragione della loro natura meramente accessoria, si prestano maggiormente ad assumere un ruolo centrale nell’apparato cerimoniale del banchetto [4].

La definizione moderna comunemente assunta di “dessert”, che è la portata dolce servita in fine di pranzo (la parola, infatti, deriva dal verbo francese desservir, che significa “sparecchiare”) fa inoltre della pasticceria un’evidente metafora dell’agognato finale tanto di un buon romanzo come di una rappresentazione teatrale.

Nella letteratura occidentale contemporanea il legame tra la parola e il cibo è rimasto stretto. Gli scrittori utilizzano la gastronomia per veicolare sia importanti simbologie, sia immaginari collettivi o personali. Il cibo spesso sottolinea passi cruciali del testo e in qualche caso diviene il perno strutturale della vicenda; è inoltre utile a presentare e descrivere i personaggi e a illuminare situazioni [5].

Talvolta è evidente come lo scrittore affidi al cibo il compito di rafforzare la verosimiglianza della vicenda narrata, marcandone il contesto storico e sociale. Di più: nella letteratura moderna la vocazione narrativa del cibo oltrepassa quella puramente nutrizionale; il cibo si inserisce nella narrazione divenendo, talvolta in maniera occulta, personaggio esso stesso.[6]

Tutto questo eleva la gastronomia a un rango culturale di pari dignità non solo con la letteratura ma anche con altre arti espressive “alte”. Cioè la gastronomia è riconosciuta come attività conoscitiva in sé.

Già nel settecento Yuan Mei scriveva che “per acquisire la conoscenza in qualsiasi disciplina è necessario prima imparare la teoria per poi passare alla pratica. Lo stesso vale per il bere e il mangiare. Occorre fare la lista di ciò che si deve conoscere”. [7]

In epoca moderna l’accostamento della gastronomia con tutte le altre espressioni artistiche, quali letteratura, pittura, musica e architettura, viene affermato con convinto vigore da gastronomi del calibro di Gualtiero Marchesi o di Pietro Leemann [8]. Entrambi sono, peraltro, sacerdoti laici della nuova religione del consumatore colto incentrata sul rispetto degli ingredienti e sulla tutela del valore nutritivo degli alimenti naturali.

Insomma, mentre il piacere di mangiare ci accomuna agli animali, il piacere della tavola, in cui letteratura, teatro, architettura e altre espressioni artistiche si fondono in armonica composizione, è peculiare della specie umana e richiede attente cure antecedenti non solo per la preparazione tecnica del cibo (attività comunemente definita culinaria) ma anche per la preparazione dello spirito in senso propriamente culturale.

Come dire: leggere fa bene, mangiare bene fa meglio, leggere e mangiare bene rendono la vita degna di essere vissuta.

[1] Cioè il pane-commento è indispensabile affinché i lettori-commensali comprendano il significato dell’opera.

[2] Nel servizio alla russa (così chiamato dal diplo­matico russo Alexander Borisovich Kurakin, di stanza in Francia tra il 1810 e il 1811) la tavola si presentava quasi del tutto spo­glia: oltre ai coperti e ai fronzoli, comparivano al più gli antipa­sti  freddi.  Gli altri piatti venivano serviti uno via l’altro seguendo un ordine gerarchico dettato non più da esigenze sceniche ma di coerenza culinaria tra le varie pietanze. A seguito del diffondersi del servizio “alla russa” verso metà ottocento comparve quell’utile accessorio che oggi si chiama “menù”, ossia una minuta di ciò che sarebbe stato servito nel corso del pranzo.

[3]  Jean Anthelme Brillat-Savarin (1755 – 1826) è stato un politico e gastronomo francese. Nell’opera citata scrive anche: “La gastronomia è la conoscenza ragionata di tutto ciò che si riferisce all’uomo in quanto egli si nutre.”

[4] Uno dei massimi interpreti dell’arte pasticcera monumentale fu Marie Antoine (Antonin) Carême (1784 –1833). Cuoco e scrittore francese, è stato uno dei protagonisti dell’alta cucina d’oltralpe (nonché inventore del classico cappello da chef).

[5] Vedi in proposito Laura Gilli, Letteratura e gastronomia: una proposta di comparazione, “Griseldaonline” –  Centro Studi Camporesi. Sul rapporto tra cibo e letteratura si vedano anche G.P.Biasin, I sapori della modernità: cibo e romanzo, Bologna, Il Mulino, 1991- Accorsi, Personaggi  letterari a tavola e in cucina: dal giovane Werther a Sal Paradiso, Palermo, Sellerio, 2005, – L. Grandi, S. Tettamanti, Sillabario goloso: l’alfabeto dei sapori, tra cucina e letteratura, Milano, Mondadori, 2011.

[6] Si pensi,adesempio,ai romanzi  “Gli arancini di Montalbano” di Camilleri, “Une gourmandise” di Muriel Barbery,  “Anatra all’arancia meccanica” del collettivo Wu Ming , “Il conto delle minne” di Giuseppina Torregrossa, “Como agua para chocolate” di Laura Esquivel.

[7]  Yuan Mei (Hangzhou, 1716 – 1797) è stato un poeta, artista, letterato e gastronomo cinese della Dinastia Qing. L’affermazione di Mei sarà poi ripresa da Brillat Savarin (vedi nota 3).

[8] Scrive Marchesi“la cucina attenta, ponderata, colta, sa dialogare con altre espressioni culturali perché è essa stessa cultura” (in “Oltre il fornello. Segreti e consigli del re dei cuochi”, Rizzoli).

(*) Il testo è tratto dall’introduzione al libro “Romanzi fritti a colazione e altre prelibatezze”, Il Cuoco Letterato (Yorick Editore 2015).

Le coq au vin della signora Maigret

Gino Cervi_Maigret
Gino Cervi e Andreina Pagnani nei panni di Maigret e la moglie in una celebre serie televisiva (1964-1972)

Nel ‘ 78, cioè sei anni dopo l’ultimo romanzo di Maigret (Maigret et monsieur Charles è stato l’ultimo romanzo dedicato al celebre commissario e l’ultimo romanzo scritto da Georges Simenon ), Simenon scrive del suo commissario: «Maigret è un piccolo borghese molto onesto. Ama mangiare ed è forse l’ unico piacere che si concede, come i poveri. Non va quasi mai al cinema, non vede la tv, non ha l’ automobile, non sa guidare». Un ritratto che ne fa quasi un alter ego del prolifico scrittore.

Il commissario Jules Maigret è un accanito fumatore di pipa, un discreto bevitore (soprattutto birra, beaujoulais e calvados) e un eccellente buongustaio. Tra le sue pietanze preferite ricordiamo il cassoulet, la tripes à la mode de Caen (la trippa alla moda di Caen), la soupe à l’oignon (la zuppa di cipolle) e il coq au vin, ovvero il gallo al vino, autentico capolavoro dell’ineffabile Madame Louise Maigret.

Il cassoulet viene citato in “La rivoltella di Maigret” (finito di scrivere a giugno del 1952, durante il soggiorno di Simenon e Lakeville nel Connecticut).

Il cassoulet è un piatto tipico francese (in particolare della regione della Linguadoca) molto complicato da preparare. Gli ingredienti principali sono fagioli bianchi, cotenna di maiale, piedini di maiale, lardo, costine, salsiccie di Tolosa e cosce di anatra o d’oca confit (*). La cottura, lunga e delicata, va fatta adoperando una speciale casseruola di terracotta prodotta a Issel (piccolissino comune francese situato nel dipartimento dell’Aude nella regione dell’Occitania)

La leggenda vuole che questo ricco e sostanzioso piatto sia nato a Castelnaudary (situata nel Lauragais, nel dipartimento dell’Aude) e che fosse stato preparato per nutrire l’esercito francese prima di una importante battaglia contro gli inglesi. Vennero riuniti tutti i viveri disponibili,  fagioli e carni, in un unico recipiente e cotto tutto assieme, ottenendo un ragù molto sostanzioso che diede la forza ai francessi  per respingere gli avversari.

La trippa viene invece citata nel romanzo La vecchia signora di Bayeux (finito di scrivere nell’inverno 1937-38 a Neuilly sur Seine) (vai alla pagina).

La trippa alla moda di Caen è un piatto tipico della Normandia a base di trippa bovina. Benchè il consumo di trippa fosse consueto già nel medioevo (Guglielmo il Conquistatore la consumava accompagnata da succo di mele della Neustria) la ricetta della trippa alla moda di Caen è più tardiva e generalmente attribuita a un certo Sidoine Benoît, un monaco vissuto nel XIV secolo nella Abbazia degli uomini di Caen.

Di  Benoît il celebre chef  Prosper Montagné nel suo Larousse gastronomique (1938) scrive: «A quell’epoca la triste cucina medievale non era stata in grado di modificare in niente la primitiva ricetta della trippa. Fu solamente tre secoli più tardi, nell’antica Cadomun (Caen) che nacque un genio culinario, emulo di Taillevent e precursore di Carême: Benoît, il grande Benoît, che, all’insipidità del piatto, sostituì intelligentemente quello che è l’anima della cucina, un ingrediente, un condimento calcolato e ragionato». Il segreto di Benoît era  di bollire la trippa non nell’acqua, ma nel sidro, la tipica bevanda normanna.

Nel romanzo “Una confidenza di Maigret” (finito di scrivere a Noland, in Svizzera nel maggio del 1959)  la signora Maigret, dopo aver servito  il coq au vin, svela il suo tocco personale, il suo ingrediente segreto alla signora Pardon: “Ha un gusto delicato, appena percettibile, che è la cosa più buona e non arrivo però ad identificare” dice la signora Pardon, ipotizzando poi che il piatto contenga del cognac o dell’Armagnac. “Eh! Be’, nonostante non sia ortodosso ci metto della prunella d’Alsazia… Ecco il segreto…”.

Il coq au vin, un altro classico piatto tradizionale francese, la cui paternità è rivendicata parimenti dalle regioni della Borgogna, l’Alsazia, la Champagne e l’Alvernia, è anche citato in Maigret a New York (marzo 1946, Canada).

Tradizionalmente il galletto si lascia marinare nel vino rosso fino a 48 ore (dipende da quanto è tenace la carne del volatile). Si usa di preferenza un galletto tagliato in pezzi. La cottura è a stufato, con aggiunta di lardo, aglio, cipolle, funghi, cognac, carote, lauro e timo. Oltre all’ingrediente segreto di Madame Maigret, naturalmente.

Della squisita soupe à l’oignon si trova traccia in “Maigret e l’affare Picpus” (1944, in Italia “Firmato Picpus”) e in “Maigret e la giovane morta” (1954).

Si tratta di una zuppa semplice di cipolle, pane e formaggio che, a fine cottura, viene grainata sotto il grill del forno (clicca qui per la ricetta). E’ la gratinatura a fare la differenza rispetto alla zuppa di cipolle preparata dalla cameriera (che sarà poi crudelmente licenziata) di “Madame Bovary” il primo romanzo di Gustave Flaubert (pubblicato nel 1856) (clicca qui per la ricetta).

(*) Si tratta di una tecnica di conservazione sotto grasso, ovvero carne cotta nel proprio grasso e travasata in una terrina assieme ad esso.

 

 

 

Essere felice e non saperlo. Ma la pasta a picchiu pacchiu aiuta?

Sordi mangia la pasta

Massimo è un manager appartenente alla buona borghesia palermitana il quale, quasi sessantenne, avverte intorno a sé la calma piatta di una crisi esistenziale che investe sia il suo ruolo professionale, dove soffre il confronto con un collega sufficientemente giovane e cinico da farlo sentire inadeguato, sia la sua dimensione familiare, priva ormai di passione per Claudia, compagna disincantata e autosufficiente, e di reale interesse per i figli incompresi e incomprensibilmente sfuggenti.
Le note dell’orchestra Mantovani, che giungono a lui attraverso l’aria calda di un pomeriggio di luglio, sono l’occasione per conoscere un vicino di casa mai notato prima, il signor Ribaudo. “Fisico segaligno, più vicino agli ottanta che ai settanta, è certamente stato ai suoi tempi un bell’uomo, alto e magro, adesso un po’ curvo. Pantaloni e camicia bianchi, cappello di paglia chiaro e scarpe un po’ demodè, di quelle bicolori, tela e cuoio estive”. Ribaudo, per la sua curiosa somiglianza con Sir Alec Guinness de “Il Ponte sul fiume Kwai”, viene subito ribattezzato “il Colonnello”.
Personaggio solitario e discreto, il Colonnello scioglie pian piano il gelo della sua riservatezza e lascia fluire, nel corso d’incontri occasionali con Massimo, il racconto pacato dei suoi ricordi e, in particolare, di un amore profondo, mal corrisposto e mai dimenticato. E’ un fiume carsico, quello del Colonnello, intriso di una profonda nostalgia per quello che avrebbe potuto essere e di rammarico per quel che non è stato, nelle cui acque calme e profonde Massimo trova rifugio, intrecciando con quelli del Colonnello i propri ricordi di amori vissuti con lancinante intensità ma ormai dissolti in una pacifica normalità quotidiana.
Nel suo romanzo “Mantovani” (Yorick Editore, 2013) Mauro Leonardi affronta il tema della vecchiaia incombente ritraendola come una stagione della vita capace di sorprenderci con l’improvvisa cognizione che quelli che erano sembrati tormenti giovanili rappresentano, invece, l’essenza stessa di una felicità piena e inconsapevole.
Nel romanzo abbiamo trovato ispirazione per una chicca della gastronomia palermitana: la pasta a picchiu pacchiu o anche “alla carrettiera”.
Se vi state chiedendo che significa “picchiu pacchiu” La risposta è: niente. Probabilmente, come il “pil pil” della cucina catalana, è solo una voce onomatopeica che, in questo caso, descrive la rapidità e la facilità di preparazione della salsa (il pil pil, invece, evoca il flebile ribollire dell’olio nel tegame).
A qualche allegro buontempone piace ricordare che il termine “pacchiu” per i siciliani indica il sesso femminile. Come dire una pasta buona ed eccitante come quella cosa lì. Ma non ci sentiamo di avallare tale spiegazione né, tanto meno, di spacciare la pasta a “picchiu pacchiu” come una ricetta afrodisiaca. Più facile è spiegare il nome alternativo “a carrittera” (alla carrettiera), i carrettieri essendo gente di poco tempo e scarsa attrezzatura culinaria (ma di robusto appetito). La salsa, infatti, per la velocità e la semplicità di preparazione si presta ad essere cucinata tra un viaggio e l’altro all’ombra del carretto, su un fuoco improvvisato.
Per la ricetta clicca qui

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