Napoli, 1932. Manca una settimana a Pasqua e la città è satura di colori e di profumi, quelli inebrianti della primavera imminente e quelli invitanti delle cucine, dove alacri massaie preparano il pranzo pasquale secondo le ricette delle tradizioni partenopea e cilentana (i casatielli, il ragù alla cilentana, la sublime pastiera).
La Napoli descritta da De Giovanni è un presepe di mercati e di vicoli, di strade e di mestieri e di una rete fitta di commerci vecchi e nuovi che si intreccia in un dedalo vivissimo in cui si muovono personaggi che rendono Napoli inimitabile, come Bambinella, il femminiello informatore del brigadiere Maione, o Ciccillo ‘o Cecato, il “suonatore di fisarmonica cieco che ci vedeva benissimo…”. Ma nel mirabile affresco dipinto con efficaci pennellate narrative da De Gennaro, si muovono anche maschere tragiche come le camice nere, protagonisti di odiosi episodi d’intolleranza fascista, o torbidi e oscuri manovratori dell’OVRA, il “braccio armato di salutari manette” del regime.
E’ in questo scenario che Cennamo Maria Rosaria, in arte “Vipera” la meglio puttana del “Paradiso” esclusiva casa di tolleranza nella centralissima via Chiaia, viene trovata uccisa, soffocata da un cuscino (“Trasite, hanno ammazzato a Vipera”).
Vipera è di una bellezza irragiungibile, capace di suscitare amore, passione, odio, invidia, avidità, bigottismo, desiderio in chiunque la circondi, troppi dei quali avrebbero motivo, occasione ed interesse per assassinarla.
Intanto l’aria di Napoli si satura dei profumi di cucina che precedono la Pasqua.
Napoli, 1932. Manca una settimana a Pasqua e la città è satura di colori e di profumi, quelli inebrianti della primavera imminente e quelli invitanti delle cucine, dove alacri massaie preparano il pranzo pasquale secondo le ricette delle tradizioni partenopea e cilentana (i casatielli, il ragù alla cilentana, la sublime pastiera).
La Napoli descritta da De Giovanni è un presepe di mercati e di vicoli, di strade e di mestieri e di una rete fitta di commerci vecchi e nuovi che si intreccia in un dedalo vivissimo in cui si muovono personaggi che rendono Napoli inimitabile, come Bambinella, il femminiello informatore del brigadiere Maione, o Ciccillo ‘o Cecato, il “suonatore di fisarmonica cieco che ci vedeva benissimo…”. Ma nel mirabile affresco dipinto con efficaci pennellate narrative da De Gennaro, si muovono anche maschere tragiche come le camice nere, protagonisti di odiosi episodi d’intolleranza fascista, o torbidi e oscuri manovratori dell’OVRA, il “braccio armato di salutari manette” del regime.
E’ in questo scenario che Cennamo Maria Rosaria, in arte “Vipera” la meglio puttana del “Paradiso” esclusiva casa di tolleranza nella centralissima via Chiaia, viene trovata uccisa, soffocata da un cuscino (“Trasite, hanno ammazzato a Vipera”).
Vipera è di una bellezza irragiungibile, capace di suscitare amore, passione, odio, invidia, avidità, bigottismo, desiderio in chiunque la circondi, troppi dei quali avrebbero motivo, occasione ed interesse per assassinarla.
L’ultimo cliente sostiene di averla lasciata ancora viva, il successivo di averla trovata già morta. Al commissario Ricciardi, che ha il dono terribile di sentire le voci dei morti di morte violenta, il fantasma della vittima sussurra una frase oscura, forse legata a torbidi giochi erotici o forse memoria di un innocente amore adolescenziale, che si rivelerà essere un indizio.
Sullo sfondo della vicenda a tinte gialle, amori e speranze di donne innamorate si consumano inutilmente nell’indifferenza del commissario Ricciardi, personaggio intriso di una maschia avvenenza italica, introversa e dolente.
Per “biancomangiare” oggi si intende comunemente un piatto dolce e delicato tipico di tre regioni italiane: la Valle d’Aosta, la Sardegna e la Sicilia. In Val d’Aosta si chiama “blanc manger” (denuncia la derivazione francese) e se ne conoscono due versioni, una con latte di mandorle e l’altra con latte di mucca. In Sardegna il dolce è chiamato “menjar blanc”, a base di crema di latte addensata con amido e scorza di limone (ma pare che la derivazione sia catalana). In Sicilia, infine, il biancomangiare è una crema preparata con mandorle tritate, zucchero, amido, buccia di limone, cannella, messa a raffreddare in forme di terracotta. Giunto nell’isola forse nell’XI secolo, il dolce (di probabile derivazione araba) era tipico della contea di Modica nel ragusano.
Nel medioevo il biancomangiare non era necessariamente un dolce, ma una preparazione basata sulle presunte qualità del colore bianco, simbolo religioso di purezza. Destinate alle classi superiori, le varie ricette prendevano il nome dal colore degli ingredienti che prevalevano nella sua elaborazione, come petto di pollo, latte, mandorle, riso, zucchero, lardo, zenzero bianco. Nel Liber de coquina (XIV sec.), primo ricettario in volgare, il biancomangiare risulta confezionato con petti di pollo, farina di riso stemperata in latte di capra o di mandorle, il tutto messo a bollire a fuoco lento con zucchero in polvere e lardo bianco sciolto, fino a raggiungere una certa densità (per la Quaresima si escludeva il lardo).
L’accostamento tra cibo e letteratura è presente sin dai tempi più remoti. Nell’Antico e nel Nuovo Testamento la parola di Dio è il pane degli uomini. Parola e cibo, dunque: il cibo, nutrimento del corpo, diviene metafora vigorosa di Sapere e Verità quale nutrimento dell’anima.
Per i latini il termine sapientia deriva dal verbo sapio, che indica aver sapore ma anche esser saggio, avere senno. I latini, cioè, estendevano il termine sapor, che significa sapore, gusto, alla parola per qualificare la parola stessa, per esempio per sottolineare l’eloquenza di un discorso.
Sempre i latini offrono materiale etimologico per definire alcuni generi letterari, come per esempio la “satira”, dal latino satŭra, che deriverebbe da un particolare elaborazione culinaria, la “lanx satura”, un piatto di primizie offerte agli dei o anche pietanza composta da ingredienti misti.
E poiché parliamo di latino, è significativa la vicinanza al mondo gastronomico del latino cosiddetto “maccheronico”, quest’ultimo termine provenendo, con buona evidenza, dal “maccherone” (che nel Medioevo indicava gli gnocchi, un impasto grossolano e popolare) o anche dal “macco”, sorta di polenta di fave spezzate in uso presso i contadini. Entrambi essendo cibi poveri, fatti con materie prime non nobili, atti a indicare un linguaggio incolto, una prosa altrettanto grossolana e adatta al gusto e alla comprensione popolana.
Attività letteraria e gastronomia si accompagnano nel corso di tutta la storia della letteratura. Emblematico è il caso di Dante che nel suo Convivio paragona le quattordici canzoni ad altrettante vivande e dove i commenti al testo sono paragonati al pane “sanza lo quale da loro non potrebbe esser mangiata” [1].
Ugualmente interessante appare il connubio tra gastronomia e teatro, parente stretto della letteratura, essendo il teatro non altro che la drammatizzazione scenica di un testo scritto (benché il testo non sia sempre indispensabile, nel qual caso la parentela è disconosciuta).
Sull’argomento si ricorda il cosiddetto servizio “alla francese” che, con la sua struttura prandiale di derivazione italiana rinascimentale e barocca, dominò la gastronomia sino all’Ottocento (ovvero sino al dilagare della moda del servizio detto “alla russa”, in uso ancora oggi) [2].
L’imbandigione e l’organizzazione del banchetto, in tale visione, era caratterizzata da un elaborato apparato scenico dominato da logiche e finalità prevalentemente simboliche, teatrali: il banchetto era cioè rappresentazione non tanto del cibo quanto di una filosofia di vita legata al piacere dello stare a tavola. In proposito Brillat Savarin, nella sua Fisiologia del gusto distingue tra il piacere del mangiare e il piacere della tavola [3].
In tale contesto l’arte pasticcera divenne, per restarvi anche nella contemporaneità, la più alta espressione dell’ideale decorativo. E ciò in quanto i dolci, a ragione della loro natura meramente accessoria, si prestano maggiormente ad assumere un ruolo centrale nell’apparato cerimoniale del banchetto [4].
La definizione moderna comunemente assunta di “dessert”, che è la portata dolce servita in fine di pranzo (la parola, infatti, deriva dal verbo francese desservir, che significa “sparecchiare”) fa inoltre della pasticceria un’evidente metafora dell’agognato finale tanto di un buon romanzo come di una rappresentazione teatrale.
Nella letteratura occidentale contemporanea il legame tra la parola e il cibo è rimasto stretto. Gli scrittori utilizzano la gastronomia per veicolare sia importanti simbologie, sia immaginari collettivi o personali. Il cibo spesso sottolinea passi cruciali del testo e in qualche caso diviene il perno strutturale della vicenda; è inoltre utile a presentare e descrivere i personaggi e a illuminare situazioni [5].
Talvolta è evidente come lo scrittore affidi al cibo il compito di rafforzare la verosimiglianza della vicenda narrata, marcandone il contesto storico e sociale. Di più: nella letteratura moderna la vocazione narrativa del cibo oltrepassa quella puramente nutrizionale; il cibo si inserisce nella narrazione divenendo, talvolta in maniera occulta, personaggio esso stesso.[6]
Tutto questo eleva la gastronomia a un rango culturale di pari dignità non solo con la letteratura ma anche con altre arti espressive “alte”. Cioè la gastronomia è riconosciuta come attività conoscitiva in sé.
Già nel settecento Yuan Mei scriveva che “per acquisire la conoscenza in qualsiasi disciplina è necessario prima imparare la teoria per poi passare alla pratica. Lo stesso vale per il bere e il mangiare. Occorre fare la lista di ciò che si deve conoscere”. [7]
In epoca moderna l’accostamento della gastronomia con tutte le altre espressioni artistiche, quali letteratura, pittura, musica e architettura, viene affermato con convinto vigore da gastronomi del calibro di Gualtiero Marchesi o di Pietro Leemann [8]. Entrambi sono, peraltro, sacerdoti laici della nuova religione del consumatore colto incentrata sul rispetto degli ingredienti e sulla tutela del valore nutritivo degli alimenti naturali.
Insomma, mentre il piacere di mangiare ci accomuna agli animali, il piacere della tavola, in cui letteratura, teatro, architettura e altre espressioni artistiche si fondono in armonica composizione, è peculiare della specie umana e richiede attente cure antecedenti non solo per la preparazione tecnica del cibo (attività comunemente definita culinaria) ma anche per la preparazione dello spirito in senso propriamente culturale.
Come dire: leggere fa bene, mangiare bene fa meglio, leggere e mangiare bene rendono la vita degna di essere vissuta.
[1] Cioè il pane-commento è indispensabile affinché i lettori-commensali comprendano il significato dell’opera.
[2] Nel servizio alla russa (così chiamato dal diplomatico russo Alexander Borisovich Kurakin, di stanza in Francia tra il 1810 e il 1811) la tavola si presentava quasi del tutto spoglia: oltre ai coperti e ai fronzoli, comparivano al più gli antipasti freddi. Gli altri piatti venivano serviti uno via l’altro seguendo un ordine gerarchico dettato non più da esigenze sceniche ma di coerenza culinaria tra le varie pietanze. A seguito del diffondersi del servizio “alla russa” verso metà ottocento comparve quell’utile accessorio che oggi si chiama “menù”, ossia una minuta di ciò che sarebbe stato servito nel corso del pranzo.
[3] Jean Anthelme Brillat-Savarin (1755 – 1826) è stato un politico e gastronomo francese. Nell’opera citata scrive anche: “La gastronomia è la conoscenza ragionata di tutto ciò che si riferisce all’uomo in quanto egli si nutre.”
[4] Uno dei massimi interpreti dell’arte pasticcera monumentale fu Marie Antoine (Antonin) Carême (1784 –1833). Cuoco e scrittore francese, è stato uno dei protagonisti dell’alta cucina d’oltralpe (nonché inventore del classico cappello da chef).
[5] Vedi in proposito Laura Gilli, Letteratura e gastronomia: una proposta di comparazione, “Griseldaonline” – Centro Studi Camporesi. Sul rapporto tra cibo e letteratura si vedano anche G.P.Biasin, I sapori della modernità: cibo e romanzo, Bologna, Il Mulino, 1991- Accorsi, Personaggi letterari a tavola e in cucina: dal giovane Werther a Sal Paradiso, Palermo, Sellerio, 2005, – L. Grandi, S. Tettamanti, Sillabario goloso: l’alfabeto dei sapori, tra cucina e letteratura, Milano, Mondadori, 2011.
[6] Si pensi,adesempio,ai romanzi “Gli arancini di Montalbano” di Camilleri, “Une gourmandise” di Muriel Barbery, “Anatra all’arancia meccanica” del collettivo Wu Ming , “Il conto delle minne” di Giuseppina Torregrossa, “Como agua para chocolate” di Laura Esquivel.
[7] Yuan Mei (Hangzhou, 1716 – 1797) è stato un poeta, artista, letterato e gastronomo cinese della Dinastia Qing. L’affermazione di Mei sarà poi ripresa da Brillat Savarin (vedi nota 3).
[8] Scrive Marchesi“la cucina attenta, ponderata, colta, sa dialogare con altre espressioni culturali perché è essa stessa cultura” (in “Oltre il fornello. Segreti e consigli del re dei cuochi”, Rizzoli).
(*) Il testo è tratto dall’introduzione al libro “Romanzi fritti a colazione e altre prelibatezze”, Il Cuoco Letterato (Yorick Editore 2015).
Gino Cervi e Andreina Pagnani nei panni di Maigret e la moglie in una celebre serie televisiva (1964-1972)
Nel ‘ 78, cioè sei anni dopo l’ultimo romanzo di Maigret (Maigret et monsieur Charles è stato l’ultimo romanzo dedicato al celebre commissario e l’ultimo romanzo scritto da Georges Simenon ), Simenon scrive del suo commissario: «Maigret è un piccolo borghese molto onesto. Ama mangiare ed è forse l’ unico piacere che si concede, come i poveri. Non va quasi mai al cinema, non vede la tv, non ha l’ automobile, non sa guidare». Un ritratto che ne fa quasi un alter ego del prolifico scrittore.
Il commissario Jules Maigret è un accanito fumatore di pipa, un discreto bevitore (soprattutto birra, beaujoulais e calvados) e un eccellente buongustaio. Tra le sue pietanze preferite ricordiamo il cassoulet, la tripes à la mode de Caen(la trippa alla moda di Caen), la soupe à l’oignon(la zuppa di cipolle) e il coq au vin, ovvero il gallo al vino, autentico capolavoro dell’ineffabile Madame Louise Maigret.
Il cassoulet viene citato in “La rivoltella di Maigret” (finito di scrivere a giugno del 1952, durante il soggiorno di Simenon e Lakeville nel Connecticut).
Il cassoulet è un piatto tipico francese (in particolare della regione della Linguadoca) molto complicato da preparare. Gli ingredienti principali sono fagioli bianchi, cotenna di maiale, piedini di maiale, lardo, costine, salsiccie di Tolosa e cosce di anatra o d’oca confit (*). La cottura, lunga e delicata, va fatta adoperando una speciale casseruola di terracotta prodotta a Issel (piccolissino comune francese situato nel dipartimento dell’Aude nella regione dell’Occitania)
La leggenda vuole che questo ricco e sostanzioso piatto sia nato a Castelnaudary (situata nel Lauragais, nel dipartimento dell’Aude) e che fosse stato preparato per nutrire l’esercito francese prima di una importante battaglia contro gli inglesi. Vennero riuniti tutti i viveri disponibili, fagioli e carni, in un unico recipiente e cotto tutto assieme, ottenendo un ragù molto sostanzioso che diede la forza ai francessi per respingere gli avversari.
La trippa viene invece citata nel romanzo La vecchia signora di Bayeux (finito di scrivere nell’inverno 1937-38 a Neuilly sur Seine) (vai alla pagina).
La trippa alla moda di Caen è un piatto tipico della Normandia a base di trippa bovina. Benchè il consumo di trippa fosse consueto già nel medioevo (Guglielmo il Conquistatore la consumava accompagnata da succo di mele della Neustria) la ricetta della trippa alla moda di Caen è più tardiva e generalmente attribuita a un certo Sidoine Benoît, un monaco vissuto nel XIV secolo nella Abbazia degli uomini di Caen.
Di Benoît il celebre chef Prosper Montagné nel suo Larousse gastronomique (1938) scrive: «A quell’epoca la triste cucina medievale non era stata in grado di modificare in niente la primitiva ricetta della trippa. Fu solamente tre secoli più tardi, nell’antica Cadomun (Caen) che nacque un genio culinario, emulo di Taillevent e precursore di Carême: Benoît, il grande Benoît, che, all’insipidità del piatto, sostituì intelligentemente quello che è l’anima della cucina, un ingrediente, un condimento calcolato e ragionato». Il segreto di Benoît era di bollire la trippa non nell’acqua, ma nel sidro, la tipica bevanda normanna.
Nel romanzo “Una confidenza di Maigret” (finito di scrivere a Noland, in Svizzera nel maggio del 1959) la signora Maigret, dopo aver servito il coq au vin, svela il suo tocco personale, il suo ingrediente segreto alla signora Pardon: “Ha un gusto delicato, appena percettibile, che è la cosa più buona e non arrivo però ad identificare” dice la signora Pardon, ipotizzando poi che il piatto contenga del cognac o dell’Armagnac. “Eh! Be’, nonostante non sia ortodosso ci metto della prunella d’Alsazia… Ecco il segreto…”.
Il coq au vin, un altro classico piatto tradizionale francese, la cui paternità è rivendicata parimenti dalle regioni della Borgogna, l’Alsazia, la Champagne e l’Alvernia, è anche citato in Maigret a New York (marzo 1946, Canada).
Tradizionalmente il galletto si lascia marinare nel vino rosso fino a 48 ore (dipende da quanto è tenace la carne del volatile). Si usa di preferenza un galletto tagliato in pezzi. La cottura è a stufato, con aggiunta di lardo, aglio, cipolle, funghi, cognac, carote, lauro e timo. Oltre all’ingrediente segreto di Madame Maigret, naturalmente.
Della squisita soupe à l’oignon si trova traccia in “Maigret e l’affare Picpus” (1944, in Italia “Firmato Picpus”) e in “Maigret e la giovane morta” (1954).
Si tratta di una zuppa semplice di cipolle, pane e formaggio che, a fine cottura, viene grainata sotto il grill del forno (clicca qui per la ricetta). E’ la gratinatura a fare la differenza rispetto alla zuppa di cipolle preparata dalla cameriera (che sarà poi crudelmente licenziata) di “Madame Bovary” il primo romanzo di Gustave Flaubert (pubblicato nel 1856) (clicca qui per la ricetta).
(*) Si tratta di una tecnica di conservazione sotto grasso, ovvero carne cotta nel proprio grasso e travasata in una terrina assieme ad esso.
Massimo è un manager appartenente alla buona borghesia palermitana il quale, quasi sessantenne, avverte intorno a sé la calma piatta di una crisi esistenziale che investe sia il suo ruolo professionale, dove soffre il confronto con un collega sufficientemente giovane e cinico da farlo sentire inadeguato, sia la sua dimensione familiare, priva ormai di passione per Claudia, compagna disincantata e autosufficiente, e di reale interesse per i figli incompresi e incomprensibilmente sfuggenti.
Le note dell’orchestra Mantovani, che giungono a lui attraverso l’aria calda di un pomeriggio di luglio, sono l’occasione per conoscere un vicino di casa mai notato prima, il signor Ribaudo. “Fisico segaligno, più vicino agli ottanta che ai settanta, è certamente stato ai suoi tempi un bell’uomo, alto e magro, adesso un po’ curvo. Pantaloni e camicia bianchi, cappello di paglia chiaro e scarpe un po’ demodè, di quelle bicolori, tela e cuoio estive”. Ribaudo, per la sua curiosa somiglianza con Sir Alec Guinness de “Il Ponte sul fiume Kwai”, viene subito ribattezzato “il Colonnello”.
Personaggio solitario e discreto, il Colonnello scioglie pian piano il gelo della sua riservatezza e lascia fluire, nel corso d’incontri occasionali con Massimo, il racconto pacato dei suoi ricordi e, in particolare, di un amore profondo, mal corrisposto e mai dimenticato. E’ un fiume carsico, quello del Colonnello, intriso di una profonda nostalgia per quello che avrebbe potuto essere e di rammarico per quel che non è stato, nelle cui acque calme e profonde Massimo trova rifugio, intrecciando con quelli del Colonnello i propri ricordi di amori vissuti con lancinante intensità ma ormai dissolti in una pacifica normalità quotidiana.
Nel suo romanzo “Mantovani” (Yorick Editore, 2013) Mauro Leonardi affronta il tema della vecchiaia incombente ritraendola come una stagione della vita capace di sorprenderci con l’improvvisa cognizione che quelli che erano sembrati tormenti giovanili rappresentano, invece, l’essenza stessa di una felicità piena e inconsapevole.
Nel romanzo abbiamo trovato ispirazione per una chicca della gastronomia palermitana: la pasta a picchiu pacchiu o anche “alla carrettiera”.
Se vi state chiedendo che significa “picchiu pacchiu” La risposta è: niente. Probabilmente, come il “pil pil” della cucina catalana, è solo una voce onomatopeica che, in questo caso, descrive la rapidità e la facilità di preparazione della salsa (il pil pil, invece, evoca il flebile ribollire dell’olio nel tegame).
A qualche allegro buontempone piace ricordare che il termine “pacchiu” per i siciliani indica il sesso femminile. Come dire una pasta buona ed eccitante come quella cosa lì. Ma non ci sentiamo di avallare tale spiegazione né, tanto meno, di spacciare la pasta a “picchiu pacchiu” come una ricetta afrodisiaca. Più facile è spiegare il nome alternativo “a carrittera” (alla carrettiera), i carrettieri essendo gente di poco tempo e scarsa attrezzatura culinaria (ma di robusto appetito). La salsa, infatti, per la velocità e la semplicità di preparazione si presta ad essere cucinata tra un viaggio e l’altro all’ombra del carretto, su un fuoco improvvisato. Per la ricetta clicca qui
Gli italiani festeggiano la caduta del fascismo. Ma presto avranno i tedeschi in casa. (Foto Wordl History Archive)
Tra il 25 luglio e l’8 settembre del 1943 l’Italia vive il periodo forse più drammatico della sua storia recente: si sveglia senza più il fascismo (dopo 21 anni il Governo fascista crollava e Mussolini veniva arrestato e relegato in prigione sul Gran Sasso) ma il mattino dopo si ritrova con i tedeschi in casa.
L’8 settembre 1943, dopo l’incomprensibile ritardo con cui il Maresciallo Badoglio aveva annunciato l’armistizio già sottoscritto cinque giorni prima (e che provocò la reazione violenta delle forze alleate che bombardarono Civitavecchia, Viterbo e Napoli nell’intento di costringere il Maresciallo ad annunciare formalmente il cambiamento di campo italiano) il Paese e tutto il suo apparato statale implode: il re Vittorio Emanuele III e il figlio Umberto, il Capo del Governo Badoglio e i vertici militari fuggono tutti dalla capitale incuranti, con irredimibile miseria umana e istituzionale, del destino dell’Italia (Churchill e i Reali d’Inghilterra non abbandoneranno mai Londra sotto i bombardamenti, perfino le principessine Elisabetta e Margaret la sera parlavano alla radio per tranquillizzare i bambini).
Salvatore Satta (giurista e scrittore) nel suo romanzo di riflessioni De profundis (Cedam 1948, ripubblicato poi da Adelphi nel 1980 e da Ilisso nel 2003) definì l’8 settembre la “morte della patria“.
L’espressione venne ripresa più tardi dagli storici Ernesto Galli della Loggia e RenzoDe Felice, secondo i quali il sentimento nazionale italiano, nato con il Risorgimento, è morto in quella infausta data per non rinascere mai più (tesi peraltro avversata da altri storici come Claudio Pavone e Nicola Tranfaglia e, da ultimo, dal Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi).
Il 25 settembre dello stesso anno, tra le undici e trenta e mezzogiorno Bologna, la città in cui si muove il Commissario De Luca (Peccato mortale di Carlo Lucarelli – Einaudi Stile Libero 2018) subisce l’incursione aerea più disastrosa di tutta la guerra. 210 tonnellate di esplosivo vengono sganciate dalle fortezze volanti americane tra il centro e la periferia distruggendo quasi 500 edifici e provocano almeno duemilacinquecento morti e quasi altrettanti feriti (impossibile accertare il numero dei dispersi).
Migliaia di profughi scappano verso le colline e le campagne circostanti da una città indifesa e vulnerabile.
In caos è totale (nella notte tra l’8 e il 9 settembre i tedeschi avevano preso possesso della città stabilendo il proprio quartier generale presso hotel Baglioni; la stessa polizia criminale presso la quale è in forze il Commissario De Luca, sembra dissolversi in attesa di un nuovo ordine) ma il personaggio nato dalla penna di Carlo Lucarelli, seguendo le piste di un corpo senza testa e di una testa senza corpo, continua a nutrire la sua ossessione di cane da caccia: arrestare gli autori di alcuni feroci omicidi legati a un turpe traffico di cocaina. Perché giustizia sia fatta? Improbabile in quei giorni in cui niente è quel che sembra, ma perché la verità venga a galla. Non senza, però, accettare un compromesso che sarà il suo peccato mortale.
Ambientato in una Bologna in cui scarseggiano le derrate alimentari e il caffè vero è un miraggio, nell’intrigante romanzo di Lucarelli si mangia poco.
Noi abbiamo scovato una spigola al forno (pag. 191): un miracolo gastronomico di essenziale voluttuosità.
Straordinarie trasformazioni dello stile di vita, del linguaggio e dei costumi degli italiani, accompagnati da un deciso aumento del tenore di vita delle famiglie, avrebbero rappresentato quella irripetibile accelerazione della crescita economica soprannominata “il miracolo economico italiano”.
Chi è nato negli anni ’50 solo dopo qualche decennio, tra le aule di magisteri di Economia o Sociologia per esempio, avrebbe compreso che quel tumultuoso affastellarsi di Lambrette e di Vespe, di 500 e di 600 rombanti in quarta sulla doppie corsie della nascente Autostrada del Sole (ma la ruspante borghesia viaggiava già tra le bombate lamiere della Fiat 1100 e il lusso vellutato delle Lancia Flavia) , di elettrodomestici destinati nella loro bianca purezza ad alleviare (moltiplicandole) le fatiche di casalinghe appagate (che da allora in poi avrebbero fatti i “mestieri” coi capelli laccati e i tacchi a spillo sotto vaporose gonne svolazzanti) ; quel moltiplicarsi, dicevamo, di luoghi magici che spalancavano atri luccicanti di promesse consumistiche come le caverne di Alibabà ma dai nomi improbabili di Standa e Upim , quelle irresistibili sirene televisive che “dopo Carosello tutti a nanna” (e quei televisori che s’infilavano con sfavillanti baluginii catodici in tutte le case insegnando l’italiano agli italiani e a pronunciare correttamente impronunciabili nomi di merci straniere straripanti dagli scaffali: Kraft, Star, Durban’s, Dixan); tutte queste straordinarie trasformazioni dello stile di vita, del linguaggio e dei costumi degli italiani, accompagnati da un deciso aumento del tenore di vita delle famiglie, avrebbero rappresentato quella irripetibile accelerazione della crescita economica soprannominata “il miracolo economico italiano”, o più semplicemente “boom”.
L’Italietta rurale diveniva, poco a poco e a sua insaputa, quell’Italia adulta che si sarebbe seduta con orgoglio alla tavola dei consessi internazionali; nientemeno che una delle principali potenze industriali dell’Occidente (ma mantenendo l’intreccio ibrido fra la persistenza di consuetudini arcaiche e l’irruzione di mode e usanze orecchiate dall’estero).
E mentre il Paese viaggiava spedito verso il progresso e l’industrializzazione e la tecnologia, mentre quella parte di Paese che parlava ancora siciliano, calabrese, napoletano, abruzzese lasciata indietro viaggiava a sua volta, con minor speditezza ma altrettanta feroce determinazione ad accumulare pezzetti di benessere per i propri figli (che nel frattempo imparato l’inglese e il francese e il tedesco, con un titolo di studio e il palmare nello zaino continuano a cercare altrove il benessere negato in Patria) ; mentre tutto questo avveniva, noi figli del ’50 guardavamo invidiosi i compagni di gioco che addentavano le prime merende industriali.
Mentre l’Italia cambiava perdevamo pezzi della nostra infanzia.
Perdevamo la semplicità disarmante di pane e zucchero, la sontuosa untuosità di pane e pomodoro e olio e un pizzico di sale e un sentore di origano, il lusso raro di un panino bianco fragrante di forno imbottito di una fetta (una) di mortadella. Sbavavamo per il miraggio bicolore della Cremalba, per la dolcezza del Golosino base di wafer e una nuvola di panna racchiusa in un guscio sottile di cioccolato, per quel miscuglio gianduioso e stupefacente (nel senso della dipendenza) di cacao e nocciole che è la Nutella (ma”vogliamo stare tutta la vita a rimpiangere la Nutella?“).
E quanto orgoglio nelle voci acute delle mamme che dalle finestre sui cortili strillavano ai loro pargoli “la merenda!” mentre spalmavano felici conservanti ed edulcoranti e coloranti e oli di palma e aromi naturali e grassi saturi (ma anche insaturi, chissenefrega) su fette di pane che avevano visto più appetitosi companatici.
E che fatica per noi genitori e nonni, divenuti adulti votati a una nutrizione sana e consapevole, recuperare figli e nipoti alla santità delle nostre merende antiche.
Si sa che percorrendo i vicoli stretti della gastronomia si possono attraversare i sentieri impervi della Storia o incrociare le strade arieggiate della Letteratura.
In uno di questi crocevia ci siamo imbattuti in D’Artagnan e nella crema Chantilly. O meglio, nell’intento di arricchire d’interesse la semplicità disarmante della ricetta della celebrata leccornia francese seguendone la storia, abbiamo incontrato il protagonista delle indimenticabili avventure di cappa e spada.
Ma che c’entra il celebre moschettiere di Alexsandre Dumas con la famosa crema francese? E’ presto detto.
Il personaggio letterario di D’Artagnan è ispirato alla reale figura di Charles de Batz de Castelmore d’Artagnan. Capita sovente in letteratura che figure storiche ispirino personaggi letterari che divengono nel tempo famosi. Più sorprendente è il suo contrario: famosi personaggi letterati che aspirano, almeno nella percezione dei lettori, a divenire figure storiche realmente esistite.
E’ il caso, per esempio, di uno dei personaggi più iconici e riusciti della letteratura di sempre, Sherlock Holmes. Sul celebre detective di Sir Arthur Conan Doyle si è, infatti, accumulata una biografia talmente dettagliata da convincere gli inglesi che Sherlock abbia realmente elaborato le sue brillanti deduzioni nella casa di Baker Street, a pochi passi da Regent’s Park a Londra, magari indossando il celebre cappello da caccia inglese (deerstalker). Per inciso, pare che non pochi inglesi siano invece convinti che Churchill non sia mai esistito realmente (*).
Ma torniamo a D’Artagnan. Fu Charles de Batz de Castelmore d’Artagnan che, a capo di un drappello di moschettieri, il 5 settembre 1661 per ordine di Luigi XIV arrestò Nicolas Fouquet potente Sovrintendente alle finanze accusato di malversazione. Fu probabilmente un’astuta manovra di palazzo architettata da Colbert, suo rivale, che ne accelerò la disgrazia denunciandone l’arricchimento e la magnificenza della festa di Vaux-le-Vicomte (pare che Fouquet avesse il vezzo di far servire le portate in piatti d’oro massiccio) per suscitare la gelosia di Luigi XIV.
All’epoca, si sa, i grandi di Francia non erano tali se non avevano al proprio servizio dei grandi Chef. François Vatel, pseudonimo di Fritz Karl Watel, cuoco e pasticcere francese, fu al servizio di Nicolas Fouquet già dall’età di 22 anni. E fu lui ad organizzare il banchetto d’inaugurazione del castello di Vaux-le-Vicomte per il quale creò la sua ricetta più celebre, in seguito divenuta famosa come crema Chantilly.
Il nome che in seguito sarebbe stato dato al dolce è il risultato di un’intrigante mistura d’avventura e opportunismo. La leccornia, infatti, rischiò infatti l’umiliazione dell’oblio perché Vatel, temendo di essere coinvolto nella congiura che portò alla rovina il suo padrone, fuggì in Inghilterra.
Più tardi, rassicurato, fece ritorno in Francia ed assunto da Luigi II di Borbone-Condé, principe di Condé, che lo assegnò al castello di Chantilly, in onore del quale rinominerà la famosa crema da lui ideata.
(*) E’ tutto vero. Secondo un sondaggio compiuto su 3 mila persone per conto della UK Tv Gold, infatti, il 58% degli intervistati ritiene che il personaggio creato da Arthur Conan Doyle nel 1887, sia vissuto realmente mentre il 23% è convinto che Winston Churchill, primo ministro dal 1940 al 1945 e dal 1951 al 1955, sia un personaggio di fantasia così come Cleopatra(4%), Ghandi (3%) e lo scrittore Charles Dickens (3%). Ma non finisce qui. Il 47% degli intervistati sostiene che Riccardo Cuor di leone, re d’Inghilterra dal 1189 al 1199, non sia mai stato sovrano ma viva solo nei libri. La curiosa notizia è contenuta tra l’altro in un trafiletto de “L’internazionale di marzo 2008. Sul punto segnalo anche una gustosa “bustina di minerva” di Umberto Eco su l’Espresso.
“…Perché la colpa è solo mia, pensa la vecchia cuoca di casa Gaurienti soffiandosi rumorosamente il naso, mia e del mio maledetto bagnet vert. Gli piaceva tanto al me Cesare e invece con tutto quel peperoncino me lo ha ucciso.”
Davvero la vecchia cuoca ha ucciso Cesare Gaurienti, il suo Cesare, sia pure inconsapevolmente? Ma procediamo con ordine.
Cesare Gaurienti è il capostipite dispotico e indiscusso di una famiglia alto borghese nonché capo incontrastato di una solidissima impresa edile i cui lauti profitti consentono da decenni a tutta la tribù di vivere nel lusso, con signorile noncuranza e naturale bon ton, tra la grassa e lenta provincia torinese e il mondo scintillante di casinò, piacevoli Boulevard, famosi ristoranti e splendide ville languidamente distese tra Nizza e Cap Ferrat.
Tra le vicende amorose di uno sceneggiatore e di un laureando in storia dell’arte, di una bella ragazza lacerata tra un marito distratto e un amante molto attento, di una signora che accetta con rassegnata nonchalance la convivenza, sotto il tetto coniugale, del marito con la cognata e di una cognata che con rassegnata disperazione convive con un amante che non divorzierà mai dalla moglie, la trama narra di un sanguinoso enigma tra Natale e Capodanno.
La morte di una vedova piemontese, abbastanza ricca da perdere con insistita abitudine al casinò, misteriosamente precipitata dal balcone di un lussuoso appartamento in Costa azzurra, apparirà infatti collegata da antichi e inestricabili legami alla morte successivo del Cesare, misteriosamente vittima di un banale incidente d’auto. Il tutto condito da una sordida storia di tangenti che ruota intorno a una lussuosa clinica.
Non mancano, in questo delizioso affresco di una certa provincia italiana, “madamazze” piemontesi presenzialiste ma esitanti, aristocratici dall’elegante omosessualità accettata dalla famiglia con sorridente condiscendenza, irresoluti travet, domestici fedelissimi ma anche no, intrattabili musicologi dal palato difficile e, appunto, gustose ricette di cucina.
L’assassino, come nelle migliori tradizioni giallistiche è il maggiordomo. O quasi!
Gianni Farinetti, “Un delitto fatto in casa” (Marsilio, 1996)