Stupisci i tuoi ospiti con una cena del ‘400

Le ricette che vi proponiamo sono di Maestro Martino da Como, cuoco del ‘400. La cena prevede un antipasto di “frittelle ripiene di vento” , una “carbonata di pancetta” e, per finire, un dessert a base di mele, “frittelle di poma“.

Benchè di semplicissima preparazione le ricette garantiscono un sicuro successo con i vostri ospiti più esigenti, promuovendo la vostra cucina come raffinata e “colta” (ma preparatevi bene sulla storia dello chef).

Martino de’ Rossi o Martino de Rubeis, detto Maestro Martino nacque attorno al 1430 nel Ducato di Milano (non si conosce la data esatta della morte, presumibilmente avvenuta nell’ultimo ventennio del secolo).

Da Milano (dove è al servizio degli Sforza) si sposta a Roma. E’ nelle cucine vaticane che si consacra il suo successo e la sua fama di cuoco di straordinario talento, capace soprattutto di inventare nuove ricette più che ricopiare quelle tradizionali dell’epoca.

Dalla seconda metà degli anni ’50, fino al 1465, è cuoco personale del Cardinale Camerlengo Ludovico Scarampi Mezzarota, Patriarca di Aquileia, noto per l’opulenza dei suoi banchetti al punto da essere soprannominato “cardinal Lucullo”.

Pare che il Cardinale Scarampi Mezzaroa avesse stanziato la considerevole somma di 20 ducati  al giorno da spendere per il cibo. E’ grazie a questa generosa disponibilità che Martino ha potuto elaborare un’abbondante produzione culinaria e cominciare a stendere i primi manoscritti del suo Libro de Arte Coquinaria, che diverrà presto un importante punto di riferimento per i cuochi contemporanei.

Il ricettario Libro de Arte Coquinaria, composto di 65 fogli non numerati scritti in lingua volgare, per la capacità inventiva e modernizzatrice di Maestro Martino diventò ben presto il testo di riferimento per tutti i cuochi a lui contemporanei – che già erano suoi ammiratori – e quelli successivi, assurgendo al ruolo di libro mastro per tutta la nuova cucina del Rinascimento.

Uno dei principali elementi distintivi dei suoi piatti, è il recupero del gusto originale delle materie prime, evitando l’abuso di spezie, com’era d’abitudine nella tradizione medioevale quando le spezie, e la loro abbondanza, simboleggiavano la ricchezza del padrone di casa.

A Maestro Martino si deve la prima menzione della parola polpetta, assente nei ricettari fino al XIV secolo, anche se – leggendone la preparazione – pare alluda non già alla polpetta vera e propria bensì ad una specie di  involtino allo spiedo. Inoltre è il primo cuoco che scrive la ricetta della finanziera piemontese ed è il primo a descrivere una preparazione che possiamo considerare come la progenitrice dell’attuale mostarda vicentina.

A Maestro Martino si ascrive anche il merito d’essere stato il primo ad aver trattato, in maniera approfondita, della pasta, in particolare dei vermicelli. Lo aveva già fatto in uno scritto precedente (De arte Coquinaria per vermicelli e maccaroni siciliani, probabilmente del 1450), che riprende nel Libro de Arte Coquinaria, esaltando, tra l’altro, i vantaggi della pasta essiccata che, in questo modo, si può conservare «doi o tre anni».

Nel 2012 è stata fondata l’Associazione Maestro Martino, presieduta dallo Chef Carlo Cracco, che ha lo scopo di valorizzare la figura storica di questo grande cuoco lombardo del Rinascimento.

Frittelle “piene di vento”

frittelle vuote

Togli del fiore di farina et d’acqua di sale e del zuccaro; distempererai questa farina facendone una pasta che non sia troppo dura, et falla sottile a modo di far lasagne; et distesa la dita pasta sopra ad una tavola, con una forma di legno tonda ovvero con un bicchiero la tagliarai frigendola in bono olio. Et guarda non ti vinisse bucata in niun loco, et a questo modo si gonfiaranno le frittelle, che pareranno piene, et saranno vote.

La “carbonata” di pancetta

pancetta alla brace

Ingredienti: 8 fettine di pancetta salata spesse circa ½ cm, zucchero, cannella, prezzemolo
succo d’arancio amaro (o, in alternativa, 1 arancia + un limone).

Preparazione: Disponete le fettine di pancetta sulla brace o su una bistecchiera ben calda e fatela rosolare bene da entrambe le parti. Servite queste squisite fettine a tavola molto calde e cosparse di zucchero, cannella e succo di arance.

Frittelle di poma

Frittelle-di-mele-ricetta-della-nonna

Monda et netta le poma molto bene, et falle cocere allesso o sotto la brascia, et cavatone fora quello duro di mezzo pistarale molto bene et insieme gli mettirai un poco de lievito et un poco di fiore di farina, et del zuccaro; et fa’ le frittelle frigendole in bono olio.

 

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Essere felice e non saperlo. Ma la pasta a picchiu pacchiu aiuta?

Sordi mangia la pasta

Massimo è un manager appartenente alla buona borghesia palermitana il quale, quasi sessantenne, avverte intorno a sé la calma piatta di una crisi esistenziale che investe sia il suo ruolo professionale, dove soffre il confronto con un collega sufficientemente giovane e cinico da farlo sentire inadeguato, sia la sua dimensione familiare, priva ormai di passione per Claudia, compagna disincantata e autosufficiente, e di reale interesse per i figli incompresi e incomprensibilmente sfuggenti.
Le note dell’orchestra Mantovani, che giungono a lui attraverso l’aria calda di un pomeriggio di luglio, sono l’occasione per conoscere un vicino di casa mai notato prima, il signor Ribaudo. “Fisico segaligno, più vicino agli ottanta che ai settanta, è certamente stato ai suoi tempi un bell’uomo, alto e magro, adesso un po’ curvo. Pantaloni e camicia bianchi, cappello di paglia chiaro e scarpe un po’ demodè, di quelle bicolori, tela e cuoio estive”. Ribaudo, per la sua curiosa somiglianza con Sir Alec Guinness de “Il Ponte sul fiume Kwai”, viene subito ribattezzato “il Colonnello”.
Personaggio solitario e discreto, il Colonnello scioglie pian piano il gelo della sua riservatezza e lascia fluire, nel corso d’incontri occasionali con Massimo, il racconto pacato dei suoi ricordi e, in particolare, di un amore profondo, mal corrisposto e mai dimenticato. E’ un fiume carsico, quello del Colonnello, intriso di una profonda nostalgia per quello che avrebbe potuto essere e di rammarico per quel che non è stato, nelle cui acque calme e profonde Massimo trova rifugio, intrecciando con quelli del Colonnello i propri ricordi di amori vissuti con lancinante intensità ma ormai dissolti in una pacifica normalità quotidiana.
Nel suo romanzo “Mantovani” (Yorick Editore, 2013) Mauro Leonardi affronta il tema della vecchiaia incombente ritraendola come una stagione della vita capace di sorprenderci con l’improvvisa cognizione che quelli che erano sembrati tormenti giovanili rappresentano, invece, l’essenza stessa di una felicità piena e inconsapevole.
Nel romanzo abbiamo trovato ispirazione per una chicca della gastronomia palermitana: la pasta a picchiu pacchiu o anche “alla carrettiera”.
Se vi state chiedendo che significa “picchiu pacchiu” La risposta è: niente. Probabilmente, come il “pil pil” della cucina catalana, è solo una voce onomatopeica che, in questo caso, descrive la rapidità e la facilità di preparazione della salsa (il pil pil, invece, evoca il flebile ribollire dell’olio nel tegame).
A qualche allegro buontempone piace ricordare che il termine “pacchiu” per i siciliani indica il sesso femminile. Come dire una pasta buona ed eccitante come quella cosa lì. Ma non ci sentiamo di avallare tale spiegazione né, tanto meno, di spacciare la pasta a “picchiu pacchiu” come una ricetta afrodisiaca. Più facile è spiegare il nome alternativo “a carrittera” (alla carrettiera), i carrettieri essendo gente di poco tempo e scarsa attrezzatura culinaria (ma di robusto appetito). La salsa, infatti, per la velocità e la semplicità di preparazione si presta ad essere cucinata tra un viaggio e l’altro all’ombra del carretto, su un fuoco improvvisato.
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La Patria è morta? W la spigola al forno!

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Gli italiani festeggiano la caduta del fascismo. Ma presto avranno i tedeschi in casa. (Foto Wordl History Archive)

Tra il 25 luglio e l’8 settembre del 1943 l’Italia vive il periodo forse più drammatico della sua storia recente: si sveglia senza più il fascismo (dopo 21 anni  il Governo fascista crollava e Mussolini veniva arrestato e relegato in prigione sul Gran Sasso) ma il mattino dopo si ritrova con i tedeschi in casa.

L’8 settembre 1943, dopo l’incomprensibile ritardo con cui il Maresciallo Badoglio aveva annunciato l’armistizio già sottoscritto cinque giorni prima (e che provocò la reazione violenta delle forze alleate che bombardarono Civitavecchia, Viterbo e Napoli nell’intento di costringere il Maresciallo ad annunciare formalmente il cambiamento di campo italiano) il Paese e tutto il suo apparato statale implode: il re Vittorio Emanuele III e il figlio Umberto, il Capo del Governo Badoglio e i vertici militari fuggono tutti dalla capitale incuranti, con irredimibile miseria umana e istituzionale, del destino dell’Italia (Churchill e i Reali d’Inghilterra non abbandoneranno mai Londra sotto i bombardamenti, perfino le principessine Elisabetta e Margaret la sera parlavano alla radio per tranquillizzare i bambini).

Salvatore Satta (giurista e scrittore) nel suo romanzo di riflessioni De profundis (Cedam 1948, ripubblicato poi da Adelphi nel 1980 e da Ilisso nel 2003) definì l’8 settembre la “morte della patria“.

L’espressione venne ripresa più tardi dagli storici Ernesto Galli della Loggia e Renzo De Felice, secondo i quali il sentimento nazionale italiano, nato con il Risorgimento,  è morto in quella infausta data per non rinascere mai più (tesi peraltro avversata da altri storici come Claudio Pavone e Nicola Tranfaglia e, da ultimo, dal Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi).

Il 25 settembre dello stesso anno, tra le undici e trenta e mezzogiorno Bologna, la città in cui si muove il Commissario De Luca (Peccato mortale di Carlo Lucarelli – Einaudi Stile Libero 2018) subisce l’incursione aerea più disastrosa di tutta la guerra. 210 tonnellate di esplosivo vengono sganciate  dalle fortezze volanti americane tra il centro e la periferia distruggendo quasi 500 edifici e provocano almeno duemilacinquecento morti e quasi altrettanti feriti (impossibile accertare il numero dei dispersi).

Migliaia di profughi scappano verso le colline e le campagne circostanti da una città indifesa e vulnerabile.

In caos è totale (nella notte tra l’8 e il 9 settembre i tedeschi avevano preso possesso della città stabilendo il proprio quartier generale presso hotel Baglioni; la stessa polizia criminale presso la quale è in forze il Commissario De Luca, sembra dissolversi in attesa di un nuovo ordine) ma il personaggio nato dalla penna di Carlo Lucarelli, seguendo le piste di un corpo senza testa e di una testa senza corpo, continua a nutrire la sua ossessione di cane da caccia: arrestare gli autori di alcuni feroci omicidi legati a un turpe traffico di cocaina. Perché giustizia sia fatta? Improbabile in quei giorni in cui niente è quel che sembra, ma perché la verità venga a galla. Non senza, però, accettare un compromesso che sarà il suo peccato mortale.

Ambientato in una Bologna in cui scarseggiano le derrate alimentari e il caffè vero è un miraggio, nell’intrigante romanzo di Lucarelli si mangia poco.

Noi abbiamo scovato una spigola al forno (pag. 191): un miracolo gastronomico di essenziale voluttuosità.

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D’Artagnan e la crema Chantilly

D'Artagnan

Si sa che percorrendo i vicoli stretti della gastronomia si possono attraversare i sentieri impervi della Storia o incrociare le strade arieggiate della Letteratura.

In uno di questi crocevia ci siamo imbattuti in D’Artagnan e nella crema Chantilly. O meglio, nell’intento di arricchire d’interesse la semplicità disarmante della ricetta della celebrata leccornia francese seguendone la storia, abbiamo incontrato il protagonista delle indimenticabili avventure di cappa e spada.

Ma che c’entra il celebre moschettiere di Alexsandre Dumas con la famosa crema francese? E’ presto detto.

Il personaggio letterario di D’Artagnan è ispirato alla reale figura di Charles de Batz de Castelmore d’Artagnan. Capita sovente in letteratura che figure storiche ispirino personaggi letterari che divengono  nel tempo famosi. Più sorprendente è il suo contrario: famosi personaggi letterati che aspirano, almeno nella percezione dei lettori, a divenire figure storiche realmente esistite.

E’ il caso, per esempio, di  uno dei personaggi più iconici e riusciti della letteratura di sempre, Sherlock Holmes. Sul celebre detective di Sir Arthur Conan Doyle si è, infatti, accumulata una biografia talmente dettagliata da convincere gli inglesi che Sherlock abbia realmente elaborato le sue brillanti deduzioni nella casa di Baker Street, a pochi passi da Regent’s Park a Londra, magari indossando il celebre cappello da caccia inglese (deerstalker). Per inciso, pare che non pochi inglesi siano invece convinti che Churchill non sia mai esistito realmente (*).

Ma torniamo a D’Artagnan. Fu Charles de Batz de Castelmore d’Artagnan che, a capo di un drappello di moschettieri, il  5 settembre 1661 per ordine di Luigi XIV arrestò Nicolas Fouquet potente Sovrintendente alle finanze accusato di malversazione. Fu probabilmente un’astuta manovra di palazzo architettata da Colbert, suo rivale, che ne accelerò la disgrazia denunciandone l’arricchimento e la magnificenza della festa di Vaux-le-Vicomte (pare che Fouquet avesse il vezzo di far servire le portate in piatti d’oro massiccio) per suscitare la gelosia di Luigi XIV.

All’epoca, si sa, i grandi di Francia non erano tali se non avevano al proprio servizio dei grandi Chef. François Vatel, pseudonimo di Fritz Karl Watel, cuoco e pasticcere francese, fu al servizio di Nicolas Fouquet già dall’età di 22 anni. E fu lui ad organizzare il banchetto d’inaugurazione del castello di Vaux-le-Vicomte per il quale creò la sua ricetta più celebre, in seguito divenuta famosa come crema Chantilly.

Il nome che in seguito sarebbe stato dato al dolce è il risultato di un’intrigante mistura d’avventura e opportunismo. La leccornia, infatti,  rischiò infatti l’umiliazione dell’oblio perché Vatel, temendo di essere coinvolto nella congiura che portò alla rovina il suo padrone, fuggì in Inghilterra.

Più tardi, rassicurato, fece ritorno in Francia ed assunto da Luigi II di Borbone-Condé, principe di Condé, che lo assegnò al castello di Chantilly, in onore del quale rinominerà la famosa crema da lui ideata.

Et voilà! La Chantilly è servita.

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(*) E’ tutto vero. Secondo un sondaggio compiuto su 3 mila persone per conto della UK Tv Gold, infatti, il 58% degli intervistati ritiene che il personaggio creato da Arthur Conan Doyle nel 1887, sia vissuto realmente mentre il 23% è convinto che Winston Churchill, primo ministro dal 1940 al 1945 e dal 1951 al 1955, sia un personaggio di fantasia così come Cleopatra(4%), Ghandi (3%) e lo scrittore Charles Dickens (3%). Ma non finisce qui. Il 47% degli intervistati sostiene che Riccardo Cuor di leone, re d’Inghilterra dal 1189 al 1199, non sia mai stato sovrano ma viva solo nei libri. La curiosa notizia è contenuta tra l’altro in un trafiletto de “L’internazionale di marzo 2008. Sul punto segnalo anche una gustosa “bustina di minerva” di Umberto Eco su l’Espresso.
L’illustrazione è tratta da http://www.lemondededartagnan.fr

La salsa assassina

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Gianni Farinetti

“…Perché la colpa è solo mia, pensa la vecchia cuoca di casa Gaurienti soffiandosi rumorosamente il naso, mia e del mio maledetto bagnet vert.  Gli piaceva tanto al me Cesare e invece con tutto quel peperoncino me lo ha ucciso.”

Davvero la vecchia cuoca ha ucciso Cesare Gaurienti, il suo Cesare, sia pure inconsapevolmente? Ma procediamo con ordine.

Cesare Gaurienti è il capostipite dispotico e indiscusso di una famiglia alto borghese nonché capo incontrastato di una solidissima impresa edile i cui lauti profitti consentono da decenni a tutta la tribù di vivere nel lusso, con signorile noncuranza e naturale bon ton, tra la grassa e lenta provincia torinese e il mondo scintillante di casinò, piacevoli Boulevard, famosi ristoranti e splendide ville languidamente distese tra Nizza e Cap Ferrat.

Tra le vicende amorose di uno sceneggiatore e di un laureando in storia dell’arte, di una bella ragazza lacerata tra un marito distratto e un amante molto attento, di una signora che accetta con rassegnata nonchalance la convivenza, sotto il tetto coniugale, del marito con la cognata e di una cognata che con rassegnata disperazione convive con un amante che non divorzierà mai dalla moglie, la trama narra di un sanguinoso enigma tra Natale e Capodanno.

La morte di una vedova piemontese, abbastanza ricca da perdere con insistita abitudine al casinò, misteriosamente precipitata dal balcone di un lussuoso appartamento in Costa azzurra, apparirà infatti collegata da antichi e inestricabili legami alla morte successivo del Cesare, misteriosamente vittima di un banale incidente d’auto. Il tutto condito da una sordida storia di tangenti che ruota intorno a una lussuosa clinica.

Non mancano, in questo delizioso affresco di una certa provincia italiana, “madamazze” piemontesi presenzialiste ma esitanti, aristocratici dall’elegante omosessualità accettata dalla famiglia con sorridente condiscendenza, irresoluti travet, domestici fedelissimi ma anche no, intrattabili musicologi dal palato difficile e, appunto, gustose ricette di cucina.

L’assassino, come nelle migliori tradizioni giallistiche è il maggiordomo. O quasi!

Gianni Farinetti, “Un delitto fatto in casa” (Marsilio, 1996)

Per leggere anche la ricetta, vai alla pagina

 

 

 

Grandi cuochi del passato: Gioacchino Rossini

Rossini
Gioacchino Rossini

Non tutti sanno che il genio musicale pesarese, che ha regalato al mondo impareggiabili composizioni come “Il barbiere di Siviglia”, “La gazza ladra”, “Semiramide” e “Guglielmo Tell”, era anche un raffinatissimo gastronomo.

Dal carattere umorale e collerico ma pure gioviale bon vivant, amante della buona tavola e delle belle donne, durante il suo lungo soggiorno a Parigi come direttore del Théâtre talien,  dal 1824 al 1836, Rossini si diede smodatamente ai piaceri della tavola, che gli saranno fatali (“mangia come tre orchi, ingozza fino a venti bistecche al giorno“, scrive il suo ammiratore e biografo Stendhal).

Nello stesso periodo Rossini conobbe, in casa Rothschild,  il mitico Antonin Carême, chef eccelso, architetto dell’alta cucina, autore dell’”Arte della cucina francese”, che divenne suo grande amico e lo ispirò per alcune indimenticabili preparazioni culinarie.

Tra esse si ricordano gli  “Spaghetti alla Scala”, una ricetta semplice, ma arricchita dal prelibato sapore del tartufo bianco di Acqualagna, i “Cannelloni alla Rossini”, rotoli di pasta riempiti uno ad uno di purée di tartufi e il “Consommé di coda di bue al tartufo”, ottenuto facendo cuocere per 3 ore a fuoco lento e molto basso questo speciale brodo, che alla fine viene arricchito con il Madera. Non manca, infine, un raffinatissimo cioccolatino,  Il “Gioacchinoa base di gianduia e tartufo, con una spolverata d’oro e l’iniziale G.R.

Le ricette

Maccheroni alla Rossini

macheroni rossini

(Libera riduzione dalla ricetta originale, dettata dal compositore. Estratta dal sito https://www.taccuinistorici.it)
INGREDIENTI
200 g di maccheroni; 100 g di burro; 100 g di parmigiano grattugiato; 50 g. di groviera grattugiato; 1 e 1/2 l. di brodo; 10 g di funghi secchi; 2 tartufi tritati; 100 g di prosciutto magro tritato; 1 pizzico di quattro spezie; 1 mazzetto di odori; 1 pomodoro;  2 dl di panna; 2 bicchieri di champagne, un po’ di arancia amara, pangrattato.
PREPARAZIONE
Fare la salsa con 50 g di burro; 50 g di parmigiano grattugiato; 1/4di litro di brodo; 10 g di funghi secchi; 2 tartufi tritati; 100 g di prosciutto magro tritato; 1 pizzico di quattro spezie; 1 mazzetto di odori; 1 pomodoro; 200 g. di panna; 2 bicchieri di champagne, lasciando cuocere a fuoco basso per un’ora circa.
Lessate i maccheroni in un brodo in piena ebollizione, passato a filtrato, dopo avervi aggiunto un cucchiaio di panna e un pizzico di arancia amara. Scolare bene.
In un tegame di terracotta imburrato versate uno strato di salsa, poi uno di maccheroni, uno strato di parmigiano e di gruviera grattugiati e di burro; proseguire a strati; ricoprite il tutto con un po’ di pangrattato e di burro, e poi fate gratinare in forno.

Insalata “Rossini”

Mentre componeva lo Stabet Mater, Gioacchino Rossini scriveva a un amico

quello che vi interesserà assai più della mia opera, è la scoperta che ho testé fatta di una nuova insalata, della quale mi affretto a mandarvi la ricetta: prendete dell’olio di Provenza, mostarda inglese, aceto di Francia, un po’ di limone, pepe, sale, battete e mescolate il tutto; poi aggiungete qualche tartufo tagliato a fette sottili. I tartufi danno a questo condimento una sorta di aureola, fatta apposta per mandare in estasi un ghiottone. Il cardinale segretario di Stato, che ho conosciuto in questi ultimi giorni, mi ha impartito, per questa scoperta, la sua apostolica benedizione… “.

Lo sfincione della marescialla

Simoneta Agnello Horbny

“La monaca” di Simonetta Agnello Horbny (Feltrinelli) è un romanzo ambientato nella Messina del 1839. E’ il 15 agosto e in casa del maresciallo Peppino Padellani di Opiri, fervono i preparativi  per la festa dell’Assunzione della Vergine.
La protagonista è Agata, sesta figlia femmina di una nobile famiglia napoletana trasferita a Messina per volontà del re Federico II di Borbone.
Secondo la definizione che ne dà la stessa autrice, Agata è una “monaca eretica”. Dalla rigida educazione e con la testa piena di sogni la ragazza nel corso di tutto il romanzo – tranne che nelle ultime righe dove tutto si sistema per il meglio – sembra sempre in bilico tra la vocazione religiosa e il desiderio di vivere una vita laica e sessualmente appagante con il bel capitano inglese James Garson.
L’ambientazione storica è splendida, la vicenda  narrata, complicata e ricca di accadimenti e colpi di scena, rischia di annoiare un po’. Se non vi sarà piaciuto, consolatevi con una ricca porzione di sfincione.

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