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Diecicimila muli e una testina di agnello

Salvatore Maira
Salvatore Maira

“La testina di agnello fritta non è il boccone preferito di Peppino, ma di suo padre. E in questa circostanza straordinaria glien’è venuta una voglia incontenibile”.

Il libro

Diecimila muli” di Salvatore Maira, Bompiani 2016

La trama

“La testina di agnello fritta non è il boccone preferito di Peppino, ma di suo padre. E in questa circostanza straordinaria glien’è venuta una voglia incontenibile”.

La circostanza è la conclusione di un grosso affare che benché gravido di rischi e d’imprevisti è concluso con esito insperabilmente positivo. Un successo frutto di calcolo e di avidità, certo, ma anche di propensione all’azzardo e della furbizia propria della fiera che guata con circospezione l’avversario, ne studia il punto debole e poi colpisce con ferocia fulminea.

La cena di Peppino Maiorana, questo il nome del protagonista del romanzo di Salvatore Maira, è un omaggio al padre che ha sofferto la fame senza mai arrendersi alle avversità.

“Estrae prima il cervello con un cucchiaio storto e lo inghiotte in un colpo, poi spezza le mascelle e con i denti strappa dalle ossa ogni piccolo filamento, triturando le giunture, levigando e succhiando ogni nervetto; rosicchia con metodo anche la cartilagine degli zigomi, scarnifica i legamenti più interni e per raggiungere ogni angolo nascosto E quando già sembrava che avesse finito, spezza in due ogni ossicino e ne succhia la linfa, divora anche i bulbi deli occhi che sotto i canini aguzzi esplodono in un retrogusto di fegato marcio”.

Il pasto ferale di Peppino è una metafora della ricostruzione dell’Italia dell’immediato dopoguerra. La vicenda si svolge, infatti, dal settembre del ‘49 alla primavera del ’50. C’era, nel Paese distrutto dalla guerra, un desiderio fortissimo di riscatto dalla miseria, dalla paura e dalla fame; c’era la volontà di migliorare, con entusiasmo e con tenacia insieme a una feroce determinazione, il proprio futuro e quello dei propri figli. Gli italiani avevano fame e avevano giurato di non patirne mai più.

C’è un romanzo, odiato e amato allo stesso tempo ma comunque notissimo (se non altro per il film che ne è stato tratto) che contiene, nel finale, una frase che racchiude il senso della storia. La pronuncia Rossella O’Hara (avete capito: si tratta del romanzo di Margaret Mitchell “Via col vento”, 1036) che tornando nella tenuta di famiglia dopo la guerra la trova distrutta; la madre è morta di tifo, il padre è impazzito e lei non mangia da giorni e così volgendo lo sguardo al cielo grida “giuro davanti Dio, e Dio m’è testimone, che… non soffrirò mai più la fame, né io né la mia famiglia: dovessi mentire, truffare, rubare o uccidere. Lo giuro davanti a Dio: non soffrirò mai più la fame!” ([1])

I Diecimila muli del titolo sono il risarcimento dei danni di guerra che l’Italia, nel 1949, deve fornire alla Grecia. Il giovane commerciante di bovini Peppino Maiorana, che acquisisce l’appalto da un trafficante romano privo di scrupoli, affronta un’impresa epocale: dovrà trovare le bestie in tutta l’isola, farle arrivare a Messina, sottoporle all’esame di una commissione e imbarcarle per il Pireo, centocinquanta alla volta, anticipando le spese con denaro che non possiede. L’avventura sembra impossibile ma grazie all’ostinazione di Peppino, che dovrà fronteggiare due ostacoli enormi, la sua famiglia e la mafia, l’impresa prende il via. La vicenda si svolge in gran parte a Messina nel cui porto si anima a poco a poco una città provvisoria fatta di contadini, mercanti, sensali, spie, prostitute.

A questa folla di personaggi, che cercano disperatamente di ricostruirsi un’esistenza dopo gli stenti e la miseria della guerra, si aggiunge il Commissario di polizia Giulio Saitta che, segnato da un lutto cerca invece un’improbabile vendetta.

Grazie alla solitarie indagini di Saitta la vicenda dei muli s’intreccia con la strisciante sovversione neofascista (ma ce ne siamo mai liberati?), con gli omicidi di decine di sindacalisti siciliani, con la guerriglia secessionista di Salvatore Giuliano e  con la strage di Portella della Ginestra che insanguina la Sicilia.

l’Italia del 1949 è magistralmente ricostruita da Maira con oggetti, sentimenti, situazioni in gran parte scomparsi. Compaiono, in una confusa successione da trovarobe cinematografico (Salvatore Maira è innanzitutto sceneggiatore e regista, oltre che saggista e romanziere) una Fiat “Millequattro” con cambio al volante, testine di agnello fritte, littorine a carbone, mestieri estinti e dannati come quello dei solfatari. Ma anche spazzole di velluto rosso per i 78 giri, vagoni pieni di spago e magazzini odorosi di olio e cereali. E una Moto Guzzi comprata a credito (che però finisce nelle acque scure del porto).

Quello di Salvatore Maira è un magnifico romanzo che racconta una storia forte e bella. Ed è anche una storia vera: in una intervista alla Gazzetta del Sud ([2]), Maira rivela che il protagonista di quella caccia ai muli, colui che fece i conti con gli affaristi e soprattutto i capi mafia, fu proprio suo padre che «vi si lanciò sperando di riscattare il proprio destino. Senza però riuscirci».

Per la ricetta vai alla pagina


[1]Giuro che non avrò più fame” è il titolo di un bel libro di Aldo Cazzullo (Mondadori, 2018) da cui è tratta la citazione.
[2] di Francesco Musolino — 24 Novembre 2016

 

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Quando cucina “Eros”…

“Dolce come il cioccolato”, di Laura Esquivel è un romanzo di magia, amore, sesso, drammi e tanta buona roba da mangiare.

Il romanzo è diviso in dodici sezioni intitolate, ciascuno, ad un mese dell’anno. Ogni sezione inizia con una ricetta messicana.

La protagonista, Tita, “nata prematura sopra il tavolo della cucina attirata dagli odori del cibo e piangendo per la presenza della cipolla”, si innamora già adolescente di Pedro, ma non può sposarlo perché, essendo figlia minore, dovrà accudire la dispotica madre nella vecchiaia, seguendo un’antica tradizione messicana.

Pedro sposa la sorella per restare vicino a Tita. Tra i due cognati, perdutamente innamorati e irresistibilmente attratti, nasce una situazione incandescente fino al dramma finale.

Tita sfoga la sua passione nella preparazione del cibo che diffonde, tra quanti se ne nutrono, i sentimenti estremi che la agitano.

La ricetta che proponiamo, tratta dal libro, è quaglie in salsa di petali di rosa” (clicca qui)

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Stoccafisso o baccalà?

Finché è vivo e guizzante si chiama ancora gadus morhua, pesce della famiglia dei Gadidi, ordine dei Teleostei, sottordine degli Anacantini. Insomma, merluzzo.

Dopo essere stato pescato, decapitato ed eviscerato il suo destino s’imbatte in un bivio: essiccato all’aria fredda e asciutta dei paesi del nord diviene pescestocco o stoccafisso, acconciato sotto sale e imbarilato diviene baccalà.

Ma qualunque cosa sia diventato il fu gadus morhua  ritrova presto la sua vera, unica e nobile ragion d’essere: la cucina.

Ma qual’è l’origine dei termini “stoccafisso” e “baccalà”?

Stoccafisso o pescestocco deriva dalla congiunzione dei termini stock (comune all’inglese, al tedesco e all’olandese, stokk in norvegese), che in buona sostanza vuol dire “bastone”, ma che (almeno in inglese) fa anche riferimento all’azione dell’immagazzinare (“stoccare” la merce, si dice anche in italiano) e fish (comune all’inglese e al tedesco, vish in olandese) che vuol dire semplicemente “pesce”. Dunque pesce duro come un bastone, ovvero pesce da “stoccare” su appositi bastoni all’aria asciutta del nord o da immagazzinare, specie per provvedere all’approvvigionamento delle navi.

Per quanto riguarda il “baccalà”, preferiamo pensare che il nome derivi semplicemente dal termine portoghese bacalhao (bacalao secondo i baschi, bacallao per il resto degli spagnoli) e questo non per provata cognizione scientifica, ma in omaggio ai baschi e ai portoghesi che ne furono gli inventori. Il termine si rifarebbe a sua volta al latino bacculus, cioè bastone.

Curioso è l’antico termine tedesco bakkel-jau che vuol dire bastone-pesce ed è il nome dato in alcune parti della Germania, ma anche in Scandinavia, allo stoccafisso. Il che probabilmente spiega perché i vicentini (che da quelle terre importarono il pesce) si ostinano a chiamare “baccalà” quello che il resto d’Italia chiama “stoccafisso”, con qualche incomprensione culinaria. Ma più comunemente in Germania il nome dato a questo pesce è kabel-jau. In olandese il termine diventa kabel-jauw (che qualcuno sospetta sia una semplice trasposizione di bakel-jau) e vuol dire “pesce-gomena”, insomma ancora una volta pesce duro come un canapo.

Nel sud Italia spesso viene semplicemente chiamato “stocco” (stoccu). Nel vicentino, a sorpresa, lo stoccafisso viene invece chiamato “baccalà.

Le notizie fin qui riportate sono tratte da “Stoccafisso & Baccalà nella Tradizione gastronomica italiana” firmato da Il Cuoco Letterato (Yorick Editore).

Il libro tratta del merluzzo e della sue due anime gastronomiche di stoccafisso  e di baccalà. Tra storia, miti e leggende narra anche del fecondo incontro tra questo prezioso alimento e la straordinaria creatività della cucina italiana.

Il libro contiene anche 90 ricette regionali. Ve ne proponiamo due:

baccalà marinato alla griglia con ceci (vai alla ricetta)

stocco alla “mammolese” (vai alla ricetta)

per tutte le ricette clicca sulla copertina e scarica l’e-book

 

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Stupisci i tuoi ospiti con una cena del ‘400

Le ricette che vi proponiamo sono di Maestro Martino da Como, cuoco del ‘400. La cena prevede un antipasto di “frittelle ripiene di vento” , una “carbonata di pancetta” e, per finire, un dessert a base di mele, “frittelle di poma“.

Benchè di semplicissima preparazione le ricette garantiscono un sicuro successo con i vostri ospiti più esigenti, promuovendo la vostra cucina come raffinata e “colta” (ma preparatevi bene sulla storia dello chef).

Martino de’ Rossi o Martino de Rubeis, detto Maestro Martino nacque attorno al 1430 nel Ducato di Milano (non si conosce la data esatta della morte, presumibilmente avvenuta nell’ultimo ventennio del secolo).

Da Milano (dove è al servizio degli Sforza) si sposta a Roma. E’ nelle cucine vaticane che si consacra il suo successo e la sua fama di cuoco di straordinario talento, capace soprattutto di inventare nuove ricette più che ricopiare quelle tradizionali dell’epoca.

Dalla seconda metà degli anni ’50, fino al 1465, è cuoco personale del Cardinale Camerlengo Ludovico Scarampi Mezzarota, Patriarca di Aquileia, noto per l’opulenza dei suoi banchetti al punto da essere soprannominato “cardinal Lucullo”.

Pare che il Cardinale Scarampi Mezzaroa avesse stanziato la considerevole somma di 20 ducati  al giorno da spendere per il cibo. E’ grazie a questa generosa disponibilità che Martino ha potuto elaborare un’abbondante produzione culinaria e cominciare a stendere i primi manoscritti del suo Libro de Arte Coquinaria, che diverrà presto un importante punto di riferimento per i cuochi contemporanei.

Il ricettario Libro de Arte Coquinaria, composto di 65 fogli non numerati scritti in lingua volgare, per la capacità inventiva e modernizzatrice di Maestro Martino diventò ben presto il testo di riferimento per tutti i cuochi a lui contemporanei – che già erano suoi ammiratori – e quelli successivi, assurgendo al ruolo di libro mastro per tutta la nuova cucina del Rinascimento.

Uno dei principali elementi distintivi dei suoi piatti, è il recupero del gusto originale delle materie prime, evitando l’abuso di spezie, com’era d’abitudine nella tradizione medioevale quando le spezie, e la loro abbondanza, simboleggiavano la ricchezza del padrone di casa.

A Maestro Martino si deve la prima menzione della parola polpetta, assente nei ricettari fino al XIV secolo, anche se – leggendone la preparazione – pare alluda non già alla polpetta vera e propria bensì ad una specie di  involtino allo spiedo. Inoltre è il primo cuoco che scrive la ricetta della finanziera piemontese ed è il primo a descrivere una preparazione che possiamo considerare come la progenitrice dell’attuale mostarda vicentina.

A Maestro Martino si ascrive anche il merito d’essere stato il primo ad aver trattato, in maniera approfondita, della pasta, in particolare dei vermicelli. Lo aveva già fatto in uno scritto precedente (De arte Coquinaria per vermicelli e maccaroni siciliani, probabilmente del 1450), che riprende nel Libro de Arte Coquinaria, esaltando, tra l’altro, i vantaggi della pasta essiccata che, in questo modo, si può conservare «doi o tre anni».

Nel 2012 è stata fondata l’Associazione Maestro Martino, presieduta dallo Chef Carlo Cracco, che ha lo scopo di valorizzare la figura storica di questo grande cuoco lombardo del Rinascimento.

Frittelle “piene di vento”

frittelle vuote

Togli del fiore di farina et d’acqua di sale e del zuccaro; distempererai questa farina facendone una pasta che non sia troppo dura, et falla sottile a modo di far lasagne; et distesa la dita pasta sopra ad una tavola, con una forma di legno tonda ovvero con un bicchiero la tagliarai frigendola in bono olio. Et guarda non ti vinisse bucata in niun loco, et a questo modo si gonfiaranno le frittelle, che pareranno piene, et saranno vote.

La “carbonata” di pancetta

pancetta alla brace

Ingredienti: 8 fettine di pancetta salata spesse circa ½ cm, zucchero, cannella, prezzemolo
succo d’arancio amaro (o, in alternativa, 1 arancia + un limone).

Preparazione: Disponete le fettine di pancetta sulla brace o su una bistecchiera ben calda e fatela rosolare bene da entrambe le parti. Servite queste squisite fettine a tavola molto calde e cosparse di zucchero, cannella e succo di arance.

Frittelle di poma

Frittelle-di-mele-ricetta-della-nonna

Monda et netta le poma molto bene, et falle cocere allesso o sotto la brascia, et cavatone fora quello duro di mezzo pistarale molto bene et insieme gli mettirai un poco de lievito et un poco di fiore di farina, et del zuccaro; et fa’ le frittelle frigendole in bono olio.

 

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Metti un’orca a cena.

LE “FERE”, ESSENZIALMENTE FEMMINE, SONO VORACI E SADICHE, FURBE E IRRIDENTI.

Oggi parliamo di uno dei migliori romanzi del novecento, “Horcinus orca”, di Stefano d’Arrigo (prima edizione, 1975, Mondadori).

Questa la trama: un giorno d’ottobre del 1943, in un paesaggio distrutto dalla guerra, ‘Ndria Cambria,  un marinaio del Regio Esercito, torna ad Acqualatroni, il suo paese d’origine al di là dello Stretto di Messina, e ritrova il padre e gli altri pescatori stremati dalla fame e alle prese con un enorme animale marino, un’Orca, appunto, o ferone, che sta morendo nelle acque davanti al paese.

L’Orca è, quindi la protagonista sempre immobile del romanzo intorno alla quale, però, si muovono agilissimi i delfini, le “fere”. Per i pescatori di Acqualatroni, le fere però, sono molto lontane dall’idea comune del delfino, termine che in quel mondo non è mai usato, ma  astutissime e crudeli nemiche dell’uomo.

Le “fere”, essenzialmente femmine, sono voraci e sadiche, furbe e irridenti. Onnipresenti contendono ai pescatori il dominio sul mare in una lotta quotidiana, che nei periodi di carestia genera la famera: fame nera, fame a fera.

La fera (o anche “pesce bestino”) è dunque un animale malvagio nel mondo dei pescatori siciliani che ne conoscono la vera natura, mentre per il resto del mondo è un delfino, simpatico ed elegante.

Niente, però, a confronto dell’Orca, l’orcaferone che stazione moribondo e dannifero di fronte alla costa siciliana: un gigantesco animale solitario apportatore di morte che ha fama di essere immortale, che è la Morte stessa.

Le fere sono da principio spaventate e attratte da questo grande animale comparso all’improvviso nelle loro acque e contemplano ammirate i getti d’acqua che emette dallo sfiatatoio. Ma quando si accorgono che l’animalone è praticamente cieco, cominciano a concepire il diabolico piano di staccargli la coda e farlo morire, in barba alla sua fama di immortale. Si organizzano con cura e passano all’azione tutte insieme, dividendosi diligentemente i compiti e suscitando l’ammirazione dei pescatori, che assistono da riva allo spettacolo grandioso e grottesco della morte dell’orcaferone.

Nel frattempo, tutto questo sconquasso di mare fa emergere dalle profondità sabbiose un subisso di “cicirella” che, finalmente, sazia la fame dei pescatori.

Romanzo chilometrico (oltre mille pagine), assai im  pegnativo e indimenticabile. 

Per le ricette clicca qui.

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Quando l’anatra finisce a tavola!

“Andate affanculo, schiavisti! Sono settant’anni che faccio lo sfigato!” Così grida Anatrino (alias Paperino) prima di spennare vivo l’odiatissino Zio Anatrone (alias Zio Paperone).

Parliamo di un libro, naturalmente. Ma andiamo con ordine. “Anatra all’arancia meccanica” del collettivo Wu Ming (Einaudi Editore) è una manciata di racconti infilzati come le anatre della Tasmania di Flynn (che è un personaggio del racconto “In like Flinn”) a formare una collana surreale e irriverente, grondante di caustica ironia e a tratti di grassa comicità.

I cinque di Wu Ming, maneggiando con disinvoltura un gergo greve insieme a immagini splatter di sconcertante brutalità, dimostrano, come già Henry Miller nel capolavoro pornografico “Opus pistorum”, che è possibile fare letteratura “alta” utilizzando gli scarti della cucina letteraria.

La raccolta trae il titolo dal racconto lungo “Canard à l’orange mécanique”, esilarante e ultraviolenta dissacrazione del mondo zuccheroso di Disney dove finalmente l’odiosissimo Zio Anatrone, alias Zio Paperone, è spennato vivo da un incazzatissimo Anatrino, alter ego di Paperino, che al grido di “andate affanculo, schiavisti! Sono settant’anni che faccio lo sfigato!” manifesta la propria raggiunta autoconsapevolezza, in un’orgia di violenza urbana.

La ricetta consigliata con il libro è l’anatra all’arancia (se volete sembrare sofisticati ditelo alla francese  “canard all’orange“, anche se la ricetta originale è toscana!) (clicca qui per la ricetta).

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Il risotto di Gadda

Nel 1946 fu pubblicato per la prima volta, in cinque puntate sulla rivista Letteratura, il più noto romanzo di Emilio Gadda, “Quer pasticciaccio brutto di Via Merulana”. La vicenda è ambientata nella Roma degli anni ’20.

Tra queste due date, era il 1938, una famosissima canzone (scritta da Carlo Innocenzi e Alessandro Sopranzi) recitava, a ritmo di foxtrot con passaggi di swing, “se potessi avere mille lire al mese, senza esagerare, sarei certo di trovar tutta la felicità!”

Dunque tra le brume plumbee del fascismo e il secondo dopo-guerra di ricostruzione e speranza, si inserisce il sogno di una felicità intima, privata, fatta di mogliettine appagate  semplici e carine, di casettine ordinate di periferia e, appunto, di mille lire al mese.

Ma torniamo al romanzo di Gadda.

Protagonista è il commissario Francesco Ingravallo, funzionario molisano della polizia di Stato, meglio conosciuto come «don Ciccio», un personaggio che ha molte cose in comune con lo stesso Gadda, prima fra tutte una profonda passione per la filosofia.

Ciccio Ingravallo “sosteneva, fra l’altro, che le inopinate catastrofi non sono mai la conseguenza o l’effetto che dir si voglia d’un unico motivo, d’una causa al singolare: ma sono come un vortice, un punto di depressione ciclonica nella coscienza del mondo, verso cui hanno cospirato tutta una molteplicità di causali convergenti. Diceva anche nodo o groviglio, o garbuglio, o gnommero, che alla romana vuol dire gomitolo. Ma il termine giuridico «le causali, la causale» gli sfuggiva preferentemente di bocca: quasi contro sua voglia” (citiamo dal testo, ndr).

La vicenda è ambientata, come si diceva, nella Roma degli anni ’20. Il clima storico è molto importante per cogliere il tono dell’opera. Attraverso uno schema narrativo fluido e ricchissimo di divagazioni Gadda denuncia la società rigida, ipocrita e ottusa della borghesia fascista, con tutti i suoi miti fasulli: l’efficientismo degli apparati burocratici, la fertilità come unica prerogativa femminile, la virilità ostentata e arrogante, una famiglia che dietro all’apparente solidità nasconde violenza e sopraffazione.

Nella primavera del 1927 a Roma, in uno stabile signorile di via Merulana, soprannominato “er palazzo dell’oro” perché abitato da agiati borghesi, sono commessi due delitti: una rapina ai danni  della Contessa Menegazzi e pochi giorni dopo, sullo stesso piano nell’appartamento di fronte, l’assassinio di Liliana Balducci, una signora ancor giovane, bella e malinconica afflitta da un frustrato desiderio di maternità. Le ricerche condotte dal Commissario Ingravallo, celibe e fortemente impressionato dalla morte della Balducci, si orientano a collegare l’omicidio con la precedente rapina. L’intrigo, o meglio lo “gnommero” come lo definisce don Ciccio nel suo colorito dialetto molisano non troverà soluzione. Il romanzo, uno dei più belli della letteratura italiana del novecento, resta perciò un giallo atipico.

Per la ricetta clicca qui

 
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Una locusta al giorno leva la fame di torno

In futuro mangeremo insetti?  L’idea di cibarsi di insetti non è del tutto irragionevole. Qualche tempo fa un gruppo di ricercatori canadesi dell’Università McGill di Montreal,  grazie a un finanziamento da un milione di dollari messo a disposizione dal premio Hult 2013,  ha lanciato l’idea di raccogliere le cavallette che vivono nelle zone agricole di Messico, Thailandia e Kenya e di trasformarle in farina (il progetto è denominato Flour Power).

Del resto, secondo uno studio della Fao condotto in collaborazione con l’Università di Wageningen nei Paesi Bassi (Edible insects Future prospects for food and feed security, 2013),  nel mondo sono già oltre 1.900 le specie di insetti di cui si cibano gli esseri umani. A livello globale i più consumati sono: coleotteri (31 per cento); bruchi (18), api, vespe e formiche (14); cavallette, locuste e grilli (13).

L’argomento introduce uno splendido romanzo di Josè Saramago (o è il romanzo che introduce l’argomento?). Si tratta di “Il Vangelo secondo Gesu’ Cristo” (Feltrinelli, traduzione di Rita Desti).

Nel romanzo di Saramago, per la ricorrenza della Pèsach (la Pasqua ebraica che ricorda l’esodo e la liberazione del popolo israelita dall’Egitto) un vicino di casa invita alla propria mensa la famiglia del giovane Giuseppe il falegname. La tavola è imbandita con cibi rituali, matzot (pane azzimo) erbe amare e, a sorpresa, frittelle di farina di locuste, per onorare la memoria dei patriarchi che guidarono il popolo ebraico nel deserto.

Lo scrittore portoghese, premio Nobel per la letteratura nel 1998, attinge all’Antico e al Nuovo Testamento per rielaborare, secondo una prospettiva tutta terrena, la vita di Gesù Cristo dalla nascita, preannunciata da un angelo-demone ma avvenuta a seguito di un normale rapporto carnale tra Maria e Giuseppe, fino alla morte atroce sulla croce con l’amara affermazione «Uomini, perdonatelo, perché non sa quello che ha fatto».

Il riferimento è al Padre che nel romanzo appare come un dio atavico assetato di sangue e di gloria, inquietante e spietato, che riesce persino a sconvolgere il Demonio, presente durante il dialogo insensato che si svolge sul lago Tiberiade tra il Padre e il Figlio.

Pubblicato nel 1991, il romanzo, per l’ottica dissacrante e sovversiva con cui umanizza la figura di Gesù, scandalizza la Chiesa che accusa lo scrittore di blasfemia e rispolvera i toni da antica inquisizione anche all’uscita del romanzo “Caino”, infierendo persino, assai poco caritativamente, sulla memoria dello scrittore dopo la sua morte, avvenuta nel 2010.

Il Gesù di Saramago è una figura dolorosamente umana. Anticonformista e ribelle, consapevole della propria discendenza da un dio infantile e grottesco, capriccioso come una divinità greca, cerca inutilmente di sottrarsi al gioco crudele che il Padre divino ordisce ai danni di un’umanità non redenta, malgrado il supremo sacrificio sulla croce, e destinata invece a una serie interminabile di sofferenze, atrocità e martiri in nome di quella stessa croce. E’ un libro complesso, dunque, e di sconvolgente bellezza.

Davvero volete la ricetta di frittelle di locuste?

Se desiderate provarci dovete lavare gli insetti più volte e asciugarli, prima di macinarli, in modo tale da raggiungere la consistenza del germe di grano.

Una volta ricavata la farina, questa può essere lavorata per fare pane, pasta, tortillas o anche frittelle (se volete servirle per la Pasqua ebraica non dovete, ovviamente, fare lievitare l’impasto). Buon appetito!

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Un buon caffè, da gustare con lentezza, contro lo stress della vita moderna

Un buon caffè, l’aroma che sale lieve alla narici, il ritmo lento di un’antica ricetta contro lo stress della vita moderna.

Siamo costantemente borbardati dall’annunciazione di catastrofi imminenti. Le emergenze ci incalzano togliendo sapore alla vita. C’è l’emergenza ambientale con i mari inquinati e i pesci imbottiti di mercurio e plastica; l’emergenza economica con la recessione diero l’angolo e il lavoro che non si trova; l’emergenza immigrazione con gli stranieri che ci tolgono il lavoro e stuprano le nostre donne; l’emergenza femminicida con le nostre donne massacrate da italianissimi uomini. Basta! Prendiamoci una pausa, magari con un buon caffè napoletano preparato con lenta consapevolezza secondo il rito descritto da Pasquale Lojacono al dirimpettaio prof. Santanna.

Parliamo di “Questi fantasmi! “, scritta da Eduardo De Filippo nel 1945 ed interpretata dallo stesso commediografo il 7 gennaio 1946, al Teatro Eliseo di Roma, con la Compagnia «Il Teatro di Eduardo con Titina De Filippo».

Il 7 giugno 1955 la commedia fu rappresentata a Parigi, al Théâtre de la Ville – Sarah Bernhardt, in occasione del “Festival internazionale d’arte drammatica” (Questi fantasmi! è stata la prima  commedia di Eduardo rappresentata all’estero).

La trama è semplice: Pasquale Lojacono è tormentato dalle infedeltà della moglie, ma è propenso a credere, assai pirandellianamente, che siano i fantasmi a portargli in casa i denari che lascia il ricco amante dell’allegra consorte.

Vediamo la scena madre: Pasquale, seduto fuori al balcone, ha disposto, davanti a sé, un’altra sedia con sopra una piccola macchinetta da caffè napoletana (la “cuccumella”) una tazzina e un piattino. Mentre attende che il caffè sia pronto parla con il dirimpettaio prof. Santanna.

“A noialtri napoletani, toglierci questo poco di sfogo fuori al balcone… Io, per esempio, a tutto rinuncerei tranne a questa tazzina di caffè, presa tranquillamente qua, fuori al balcone, dopo quell’oretta di sonno che uno si è fatta dopo mangiato. E me la devo fare io stesso, con le mie mani. Questa è una macchinetta per quattro tazze, ma se ne possono ricavare pure sei, e se le tazze sono piccole pure otto per gli amici… il caffè costa cosi’ caro… (Ascolta, poi) Mia moglie non mi onora, queste cose non le capisce. E’ molto più giovane di me, sapete, e la nuova generazione ha perduto queste abitudini che, secondo me, sotto un certo punto di vista sono la poesia della vita; perché, oltre a farvi occupare il tempo, vi danno pure una certa serenità di spirito. Neh, scusate chi mai potrebbe prepararmi un caffè come me lo preparo io, con lo stesso zelo… con la stessa cura. Capirete che, dovendo servire me stesso, seguo le vere esperienze e non trascuro niente… Sul becco… lo vedete il becco? (Prende la macchinetta in mano e indica il becco della caffettiera) Qua, professore, dove guardate? Questo… (Ascolta) Vi piace sempre di scherzare…. No, no… scherzate pure… Sul becco io ci metto questo coppitello di carta… (lo mostra) Pare niente, questo coppitello ci ha la sua funzione… E già perchè il fumo denso del primo caffè che scorre, che poi e il più carico, non si disperde. Come pure, professò, prima di colare l’acqua, che bisogna farla bollire per tre o quattro minuti, per lo meno, prima di dicevo, nella parte interna della capsula bucherellata, bisogna cospargervi mezzo cucchiaino di polvere appena macinata – piccolo segreto! In modo che, nel momento della colata qua, in pieno bollore, già si aromatizza per conto suo.”

Insomma con la “cuccumella” si ottiene, seguendo un rito casalingo che non ammette fretta, un caffè di consistenza leggera e di gusto pieno che fa bene al cuore.

Per la ricetta del caffè “alla napoletana” clicca qui

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Il “cornuto contento” e il caffè di Eduardo. Ovvero un’odierna metafora elettorale.

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Eduardo De Filippo in “Questi fantasmi!”

Pare che malgrado le stravaganti affermazioni di quel personaggio da commedia all’italiana che è il  Ministro dei trasporti e le imbarazzanti performance della Sottosegretaria all’economia dell’attuale governo; malgrado le minacce un tantino volgari rivolte da quell’altro leader grillino dalla lontana America latina ai giornalisti nostrani (assai poco eufemisticamente definiti “puttane”); malgrado le improvvide dichiarazioni di quel Vice ministro passato, per vischiosità familistiche, dal cadenzato bellico onestà onestà al desolante “tengo famiglia”; malgrado tutto ciò, dicevo,  il consenso tributato all’attuale Governo dagli elettori del Movimento 5 Stelle anziché diminuire, inaspettatamente regge, se non aumenta addirittura. Insomma i “grillini” sembrano “contenti” dei loro rappresentanti politici.

Questa sconsolata osservazione mi fornisce valido pretesto per parlarvi di quell’altro “cornuto contento” che è Pasquale Lojacono, protagonista di una bella commedia di Eduardo.

Parliamo di “Questi fantasmi! “, scritta da Eduardo De Filippo nel 1945 ed interpretata dallo stesso commediografo il 7 gennaio 1946, al Teatro Eliseo di Roma, con la Compagnia «Il Teatro di Eduardo con Titina De Filippo».

Il 7 giugno 1955 la commedia fu rappresentata a Parigi, al Théâtre de la Ville – Sarah Bernhardt, in occasione del “Festival internazionale d’arte drammatica” (Questi fantasmi! è stata la prima  commedia di Eduardo rappresentata all’estero).

La trama è semplice: Pasquale Lojacono è tormentato dalle infedeltà della moglie, ma è propenso a credere, assai pirandellianamente, che siano i fantasmi a portargli in casa i denari che lascia il ricco amante dell’allegra consorte.

Vediamo la scena madre: Pasquale, seduto fuori al balcone, ha disposto, davanti a sé, un’altra sedia con sopra una piccola macchinetta da caffè napoletana (la “cuccumella”) una tazzina e un piattino. Mentre attende che il caffè sia pronto parla con il dirimpettaio prof. Santanna.

“A noialtri napoletani, toglierci questo poco di sfogo fuori al balcone… Io, per esempio, a tutto rinuncerei tranne a questa tazzina di caffè, presa tranquillamente qua, fuori al balcone, dopo quell’oretta di sonno che uno si è fatta dopo mangiato. E me la devo fare io stesso, con le mie mani. Questa è una macchinetta per quattro tazze, ma se ne possono ricavare pure sei, e se le tazze sono piccole pure otto per gli amici… il caffè costa cosi’ caro… (Ascolta, poi) Mia moglie non mi onora, queste cose non le capisce. E’ molto più giovane di me, sapete, e la nuova generazione ha perduto queste abitudini che, secondo me, sotto un certo punto di vista sono la poesia della vita; perché, oltre a farvi occupare il tempo, vi danno pure una certa serenità di spirito. Neh, scusate chi mai potrebbe prepararmi un caffè come me lo preparo io, con lo stesso zelo… con la stessa cura. Capirete che, dovendo servire me stesso, seguo le vere esperienze e non trascuro niente… Sul becco… lo vedete il becco? (Prende la macchinetta in mano e indica il becco della caffettiera) Qua, professore, dove guardate? Questo… (Ascolta) Vi piace sempre di scherzare…. No, no… scherzate pure… Sul becco io ci metto questo coppitello di carta… (lo mostra) Pare niente, questo coppitello ci ha la sua funzione… E già perchè il fumo denso del primo caffè che scorre, che poi e il più carico, non si disperde. Come pure, professò, prima di colare l’acqua, che bisogna farla bollire per tre o quattro minuti, per lo meno, prima di dicevo, nella parte interna della capsula bucherellata, bisogna cospargervi mezzo cucchiaino di polvere appena macinata – piccolo segreto! In modo che, nel momento della colata qua, in pieno bollore, già si aromatizza per conto suo.”

Insomma con la “cuccumella” si ottiene, seguendo un rito casalingo che non ammette fretta, un caffè di consistenza leggera e di gusto pieno. Quello che manca alla politica di oggi (non la cuccumella, intendo, ma la leggerezza e il gusto di far bene le cose).

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