
“La testina di agnello fritta non è il boccone preferito di Peppino, ma di suo padre. E in questa circostanza straordinaria glien’è venuta una voglia incontenibile”.
Il libro
“Diecimila muli” di Salvatore Maira, Bompiani 2016
La trama
“La testina di agnello fritta non è il boccone preferito di Peppino, ma di suo padre. E in questa circostanza straordinaria glien’è venuta una voglia incontenibile”.
La circostanza è la conclusione di un grosso affare che benché gravido di rischi e d’imprevisti è concluso con esito insperabilmente positivo. Un successo frutto di calcolo e di avidità, certo, ma anche di propensione all’azzardo e della furbizia propria della fiera che guata con circospezione l’avversario, ne studia il punto debole e poi colpisce con ferocia fulminea.
La cena di Peppino Maiorana, questo il nome del protagonista del romanzo di Salvatore Maira, è un omaggio al padre che ha sofferto la fame senza mai arrendersi alle avversità.
“Estrae prima il cervello con un cucchiaio storto e lo inghiotte in un colpo, poi spezza le mascelle e con i denti strappa dalle ossa ogni piccolo filamento, triturando le giunture, levigando e succhiando ogni nervetto; rosicchia con metodo anche la cartilagine degli zigomi, scarnifica i legamenti più interni e per raggiungere ogni angolo nascosto E quando già sembrava che avesse finito, spezza in due ogni ossicino e ne succhia la linfa, divora anche i bulbi deli occhi che sotto i canini aguzzi esplodono in un retrogusto di fegato marcio”.
Il pasto ferale di Peppino è una metafora della ricostruzione dell’Italia dell’immediato dopoguerra. La vicenda si svolge, infatti, dal settembre del ‘49 alla primavera del ’50. C’era, nel Paese distrutto dalla guerra, un desiderio fortissimo di riscatto dalla miseria, dalla paura e dalla fame; c’era la volontà di migliorare, con entusiasmo e con tenacia insieme a una feroce determinazione, il proprio futuro e quello dei propri figli. Gli italiani avevano fame e avevano giurato di non patirne mai più.
C’è un romanzo, odiato e amato allo stesso tempo ma comunque notissimo (se non altro per il film che ne è stato tratto) che contiene, nel finale, una frase che racchiude il senso della storia. La pronuncia Rossella O’Hara (avete capito: si tratta del romanzo di Margaret Mitchell “Via col vento”, 1036) che tornando nella tenuta di famiglia dopo la guerra la trova distrutta; la madre è morta di tifo, il padre è impazzito e lei non mangia da giorni e così volgendo lo sguardo al cielo grida “giuro davanti Dio, e Dio m’è testimone, che… non soffrirò mai più la fame, né io né la mia famiglia: dovessi mentire, truffare, rubare o uccidere. Lo giuro davanti a Dio: non soffrirò mai più la fame!” ([1])
I Diecimila muli del titolo sono il risarcimento dei danni di guerra che l’Italia, nel 1949, deve fornire alla Grecia. Il giovane commerciante di bovini Peppino Maiorana, che acquisisce l’appalto da un trafficante romano privo di scrupoli, affronta un’impresa epocale: dovrà trovare le bestie in tutta l’isola, farle arrivare a Messina, sottoporle all’esame di una commissione e imbarcarle per il Pireo, centocinquanta alla volta, anticipando le spese con denaro che non possiede. L’avventura sembra impossibile ma grazie all’ostinazione di Peppino, che dovrà fronteggiare due ostacoli enormi, la sua famiglia e la mafia, l’impresa prende il via. La vicenda si svolge in gran parte a Messina nel cui porto si anima a poco a poco una città provvisoria fatta di contadini, mercanti, sensali, spie, prostitute.
A questa folla di personaggi, che cercano disperatamente di ricostruirsi un’esistenza dopo gli stenti e la miseria della guerra, si aggiunge il Commissario di polizia Giulio Saitta che, segnato da un lutto cerca invece un’improbabile vendetta.
Grazie alla solitarie indagini di Saitta la vicenda dei muli s’intreccia con la strisciante sovversione neofascista (ma ce ne siamo mai liberati?), con gli omicidi di decine di sindacalisti siciliani, con la guerriglia secessionista di Salvatore Giuliano e con la strage di Portella della Ginestra che insanguina la Sicilia.
l’Italia del 1949 è magistralmente ricostruita da Maira con oggetti, sentimenti, situazioni in gran parte scomparsi. Compaiono, in una confusa successione da trovarobe cinematografico (Salvatore Maira è innanzitutto sceneggiatore e regista, oltre che saggista e romanziere) una Fiat “Millequattro” con cambio al volante, testine di agnello fritte, littorine a carbone, mestieri estinti e dannati come quello dei solfatari. Ma anche spazzole di velluto rosso per i 78 giri, vagoni pieni di spago e magazzini odorosi di olio e cereali. E una Moto Guzzi comprata a credito (che però finisce nelle acque scure del porto).
Quello di Salvatore Maira è un magnifico romanzo che racconta una storia forte e bella. Ed è anche una storia vera: in una intervista alla Gazzetta del Sud ([2]), Maira rivela che il protagonista di quella caccia ai muli, colui che fece i conti con gli affaristi e soprattutto i capi mafia, fu proprio suo padre che «vi si lanciò sperando di riscattare il proprio destino. Senza però riuscirci».
Per la ricetta vai alla pagina
[1] “Giuro che non avrò più fame” è il titolo di un bel libro di Aldo Cazzullo (Mondadori, 2018) da cui è tratta la citazione.
[2] di Francesco Musolino — 24 Novembre 2016